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Channel: Flare – MEDIA INAF

Prevedere meglio le eruzioni solari

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Crediti: Solar Dynamics Observatory, NASA

Crediti: Solar Dynamics Observatory, NASA

Un team internazionale di ricerca ha messo a punto un metodo per analizzare in modo estremamente rapido e preciso i campi magnetici presenti nell’atmosfera solare. In un articolo pubblicato su Nature Physics, i ricercatori spiegano il loro metodo e come questo rappresenti un significativo balzo in avanti per il cosiddetto space weather, ovvero lo studio e la predizione di attività solari potenzialmente catastrofiche per la tecnologia terrestre, se non per la vita stessa sul nostro pianeta. Determinate variazioni del campo magnetico solare sono infatti considerate la scintilla che innesca i brillamenti (flares), rapide ma intense esplosioni d’energia che avvengono nella fotosfera della nostra stella.

«Le continue esplosioni che avvengono nel Sole costituiscono la natura potenzialmente distruttiva della stella a noi più vicina», commenta David Jess della Queen University di Belfast, autore principale del nuovo studio. «Le nostre nuove tecniche rappresentano un nuovo modo di sondare i campi magnetici esterni del Sole, fornendo agli scienziati di tutto il mondo con un nuovo approccio per esaminare, e in definitiva comprendere, i precursori responsabili dei fenomeni distruttivi associati allo space waether».

Per la ricerca sono stati utilizzati i dati ottenuti sia dal telescopio spaziale della NASA SDO (Solar DynamicsObservatory) che dal sistema multicamera ROSA (Rapid Oscillations in the Solar Atmosphere) del Dunn Solar Telescope all’osservatorio di Sunspot, in Nuovo Messico. Con questi dati, i ricercatori hanno potuto ricostruire un quadro completo di come i campi magnetici permeino la turbolenta atmosfera solare, diramandosi fino alla sua parte più esterna, la corona.

«Capire il comportamento dei campi magnetici del Sole», aggiunge Damian Christian della California State University, «ci fornisce informazioni cruciali sull’immensa energia in gioco. Siamo molto soddisfatti del potenziale della nostra nuova tecnica per prevedere meglio i brillamenti solari».

Osservazioni di ROSA (quadrato piccolo) sovrapposte a quelle di SDO. Da Jess et al., ApJ, 757, 160 (2012)

Osservazioni di ROSA (quadrato piccolo) sovrapposte a quelle di SDO. Da Jess et al., ApJ, 757, 160 (2012)

I ricercatori sono stati in grado di determinare le intensità del campo magnetico ad un alto grado di precisione grazie allo studio delle onde che si propagano lungo i campi magnetici con velocità di oltre 800.000 chilometri all’ora. La velocità con cui tali onde possono viaggiare è infatti regolata dalle caratteristiche dell’atmosfera solare, compresa la temperatura – che per l’atmosfera esterna si aggira sul milione di gradi – e, appunto, l’intensità del campo magnetico.

Lo studio ha messo in evidenza come la forza dei campi magnetici diminuisca di un fattore 100 mentre si inoltrano dalla superficie verso la più tenue e calda corona. Pur meno forti, i flussi di campo magnetico possiedono comunque ancora un’enorme energia che, se sottoposti a forti tensioni, possono rilasciare violentemente sotto forma di eruzioni solari.

I metodi di analisi sviluppati dal gruppo di ricerca vogliono rendere disponibile un modo molto più veloce per esaminare le modificazioni del campo magnetico in tutto il percorso che sfocia nella produzione di un brillamento. Analisi che, sperabilmente, possano essere utilizzate per segnalare in maniera sempre più precoce e accurata i fenomeni più estremi di space weather.

“Solar Coronal Magnetic Fields Derived Using Seismology Techniques Applied to Omnipresent Sunspot Waves”, David Jess et al., 2015 November 16, Nature Physics


Superflare solare: tecnicamente possibile

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Una potente eruzione solare catturata dall'obiettivo del Solar Dynamics Observatory NASA.

Una potente eruzione solare catturata dall’obiettivo del Solar Dynamics Observatory NASA

Ritorna lo spettro del superflare solare. Una bomba da un miliardo di megatoni confezionata nientemeno che dalla nostra stella e che potrebbe causare un gigantesco blackout, qui, a Terra. A parlare di sempre meno remota possibilità di un evento di queste proporzioni sono i ricercatori della Warwick University che, studiando il comportamento di una stella binaria conosciuta come KIC 9655129, hanno individuato pericolose somiglianze con il nostro Sole: potrebbe produrre regolarmente superflare.

Al momento si tratta di un processo alle intenzioni, perché l’Armageddon elettromagnetico non si è ancora scatenato, ma il superflare solare potrebbe arrivare davvero. Analizzando i dati raccolti dal telescopio spaziale NASA Kepler, un gruppo di ricerca della Warwick University ha individuato un superflare stellare proveniente dalla stella binaria KIC 9655129, che risponde a un modello fisico molto simile a quello dei brillamenti solari prodotti dalla nostra stella: il Sole.

Si tratta, in questo caso, di brillamenti migliaia di volte più potenti a quelli finora mai registrati sulla superficie della nostra stella, ma spesso riscontrati dagli astrofisici su altre stelle di sistemi lontani. KIC 9655129, che si trova all’interno della Via Lattea, è piuttosto conosciuta per i suoi superflare. Ma c’è una novità: la fisica che li ha prodotti potrebbe essere la stessa che governa l’attività sul nostro Sole.

Se la cosa fosse confermata, bisognerebbe prendere in seria considerazione l’eventualità che il nostro pianeta possa essere spettatore di un brillamento equivalente a una bomba di un miliardo di megatoni. Una tempesta elettromagnetica che certo potrebbe mettere a dura prova la rete elettrica a Terra e causare danni incalcolabili (vedi MediaINAF).

«Se il Sole possa mai produrre brillamenti di queste dimensioni non lo possiamo sapere, se non analizzando i processi fisici che li producono su altre stelle verificando se, qui da noi, ci siano o meno le condizioni perché si ripetano», spiega Chloë Pugh, responsabile della ricerca presso il Warwick Center for Fusion, Space and Astrophysics. «Se il Sole dovesse produrre un superflare sarebbe davvero un disastro per noi. I sistemi di comunicazione GPS potrebbero venire danneggiati e potrebbero verificarsi estesi blackout alla rete elettrica. Fortunatamente le probabilità che questo si verifichi sono estremamente basse».

Talvolta nella parte conclusiva di un evento di brillamento si possono registrare pulsazioni quasi periodiche – quasi periodic pulsations – o QPPs. Nel caso di KIC 9655129 sono state individuate due periodicità, una di 78 minuti e una di 32. «Secondo i nostri modelli si tratta di due periodicità indipendenti. La spiegazione più plausibile è che siano causate da oscillazioni magnetoidrodinamiche (MHD), frequentemente osservate durante questi fenomeni. Un comportamento che accomuna questo tipo di flare con quelli registrati anche sul nostro Sole», spiega Anne-Marie Broomhall, anche lei autrice dello studio e in forze alla Warwick. Un risultato che supporta l’ipotesi che vuole il Sole come potenziale fornace di eventi potenzialmente devastanti.

Là dove il Sole luccica

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La macchia solare AR2529 fotografata il 13 aprile 2016, confrontata alle dimensioni della Terra. Crediti: Karzaman Ahmad, Langkawi National Observatory in Malaysia

La macchia solare AR2529 fotografata il 13 aprile 2016, confrontata alle dimensioni della Terra. Crediti: Karzaman Ahmad, Langkawi National Observatory in Malaysia

L’assenza totale di macchie solari che finora caratterizzava il periodo di minima attività magnetica solare nell’attuale ciclo undecennale è stato bruscamente interrotto qualche giorno fa, quando sulla superficie del Sole è comparsa una cosiddetta “regione attiva”, contraddistinta dalla sigla AR2529. Questa primizia solare, ritenuta una macchia poco attiva, presentava la caratteristica di ricordare una forma “a cuore”.

Gli scienziati si sono dovuti ricredere sull’apparente carattere tranquillo di questa macchia solare quando il satellite SDO della NASA, lo scorso 17 aprile, l’ha osservata produrre un brillamento (flare) di media entità (classe M 6.7).

I brillamenti solari sono potenti esplosioni di radiazioni. Si tratta di radiazioni potenzialmente nocive per gli esseri umani, che vengono fortunatamente schermate dall’atmosfera terrestre. Il pericolo maggiore è rappresentato dalle interferenze che i fenomeni più energetici di questo genere possono portare ai satelliti in orbita attorno alla Terra. Anche per questo motivo, i brillamenti sono di particolare interesse per gli scienziati.

Il brillamento solare originato da AR2529 il 17 aprile 2016 ripreso dalla sonda NASA SDO

Video del brillamento solare originato da AR2529 il 17 aprile 2016 ripreso dalla sonda NASA Solar Dynamics Observatory. Si nota anche un anello di plasma scaturire sul lato destro. Crediti: NASA/SDO/Goddard

I flare vengono creati quando l’intreccio dei campi magnetici si riorganizza in maniera improvvisa ed esplosiva, convertendo energia magnetica in luce attraverso un processo chiamato riconnessione magnetica. Almeno questo dice la teoria, difficile da provare dal punto di vista sperimentale perché i segni distintivi di tale processo sono difficili da individuare.

Ora è stato pubblicato un nuovo studio a sostegno della correttezza di questa interpretazione dei brillamenti solari. Si tratta d’una ricerca basata sulle osservazioni che tre telescopi spaziali solari sono riusciti a realizzare durante un brillamento solare del dicembre 2013, ottenendo la visione più completa di un fenomeno elettromagnetico chiamato corrente diffusa (current sheet).

Animazione del brillamento solare del 3 dicembre 2013 visto contemporaneamente dalle sonda americane SDO e STEREO e giapponese HINODE. La corrente diffusa è una struttura lunga e stretta, riconoscibile specialmente nelle viste di sinistra. Crediti: NASA/JAXA/SDO/STEREO/ Hinode (courtesy Zhu, et al.)

Animazione del brillamento solare del 3 dicembre 2013 visto contemporaneamente dalle sonda americane SDO e STEREO e giapponese HINODE. La corrente diffusa è una struttura lunga e stretta, riconoscibile specialmente nelle viste di sinistra. Crediti: NASA/JAXA/SDO/STEREO/ Hinode (courtesy Zhu, et al.)

A differenza di altri eventi “climatici” spaziali, come ad esempio le espulsioni di massa coronale, i brillamenti solari viaggiano alla velocità della luce. Ciò significa che non abbiamo alcun segnale anticipatore del loro arrivo. Sicché gli scienziati vogliono arrivare a definire i processi che portano alla creazione dei brillamenti solari: la speranza è quella di riuscire, prima o poi, a prevederli con qualche giorno di anticipo.

«L’esistenza di una corrente diffusa è cruciale in tutti i nostri modelli che predicono l’evoluzione dei brillamenti solari», dice James McAteer, astrofisico presso la New Mexico State University e tra gli autori del nuovo studio. «Così queste osservazioni ci rendono molto più sicuri e rilassati».

Modello di “current sheet”. Crediti: ESA

Riconnessione magnetica. Crediti: ESA

Una corrente diffusa è un flusso molto veloce e molto piatto di materiale elettricamente carico, definito in parte dallo spessore estremamente ridotto rispetto alla estensione. Le correnti diffuse si formano quando due campi magnetici allineati in modo opposto entrano in stretto contatto, creando una pressione magnetica molto alta. La corrente elettrica che scorre attraverso questa zona ad alta pressione è fortemente compressa, come fosse “laminata”. Questa configurazione di campi magnetici è instabile, una condizione che può facilmente portare alla riconnessione magnetica.

« La riconnessione magnetica accade nell’interfaccia tra campi magnetici allineati in modo opposto», spiega Chunming Zhu, scienziato spaziale alla New Mexico State University e autore principale dello studio. «I campi magnetici si spezzano e si riconnettono, dando origine a un brillamento solare».

Non è naturalmente la prima volta gli scienziati osservano una corrente diffusa durante un brillamento solare, ma questo studio, secondo gli autori, è unico, in quanto diverse proprietà della corrente diffusa – quali velocità, temperatura, densità e dimensioni – sono state osservate contemporaneamente da più angoli di vista, oppure derivate da più di metodo di analisi.

Un altro studio appena pubblicato su Scientific Reports, una rivista scientifica affiliata a Nature, propone un ulteriore record nel campo dei brillamenti solari. Gli scienziati del New Jersey Institute of Technology (NJIT) hanno catturato al Big Bear Solar Observatory (BBSO) immagini senza precedenti di un brillamento solare, esploso il 22 giugno 2015. Secondo gli scienziati, si tratta delle immagini con maggiore risoluzione per questo genere di osservazioni.

Ripresa del telescopio NST (a dx) confrontata con quella del satellite SDO (a sx). Crediti: NJTI

Ripresa del telescopio NST (a dx) confrontata con quella del satellite SDO (a sx). Crediti: NJTI

Nella straordinaria galleria ottenuta dal telescopio New Solar Telescope (NST) di 1.6 metri vi sono cose che noi umani non possiamo neanche immaginare: nastri di bagliori luminosi che attraversano una macchia solare, seguiti da una pioggia di plasma coronale che si condensa nella fase di raffreddamento poco dopo il brillamento, “annaffiando” la superficie visibile del Sole di esplosive gocce luminose.

Le nuove immagini permettono di comprendere meglio uno degli enigmi centrali della fisica solare, ovvero come l’energia venga trasferito da una regione del Sole all’altra durante e dopo un brillamento solare. «Possiamo ora osservare in dettaglio molto fine come l’energia sia trasportata nei brillamenti solari», commenta Ju Jing, professoressa al dipartimento di fisica del NJIT e autrice principale dello studio. «In questo caso dalla corona, dove è stato conservato, alla bassa cromosfera, decine di migliaia di miglia più in basso, dove la maggior parte dell’energia è stata infine convertita in calore e irradiata via».

Ju Jing. Crediti: NJTI

Ju Jing. Crediti: NJTI

Ju sottolinea che, mentre i fasci di elettroni sono tradizionalmente visti come l’agente principale per il trasporto di energia nei brillamenti, le recenti osservazioni forniscono nuove informazioni sulla scala spaziale a cui avviene il trasporto di energia.

Anche in questo caso, i ricercatori sperano che i loro risultati possano portare a una migliore comprensione dell’impatto che brillamenti possono avere sulle attività Terrestri.

«Le nostre misure colmano il divario tra modelli e osservazioni, aprendo anche interessanti quesiti per ricerche future», commenta in conclusione Ju. «Saremo in grado di misurare, ad esempio, con i telescopi terrestri di grandi dimensioni queste caratteristiche sulla superficie del Sole fino alla loro scala spaziale fondamentale?».

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Un telescopio solare al Polo Sud

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Fase del montaggio del canale nel Potassio (K) sulla montatura del telescopio. Crediti: Francesco Berrilli

Per un fisico solare, uno dei luoghi ideali per osservare la nostra stella è senza dubbio il Polo Sud. Questo è dovuto da un lato alle condizioni di stabilità atmosferica e pulizia del cielo eccezionali, grazie anche alle quote che raggiungono i 3.000 metri sul livello del mare, e dall’altro alle osservazioni virtualmente ininterrotte dell’estate australe, quando il Sole arriva ad essere visibile per tutto l’arco della giornata. Da queste considerazioni nasce il progetto per il South Pole Solar Observatory, un telescopio dedicato all’osservazione della nostra stella e posizionato al Polo Sud geografico.

A partire dai primi giorni di gennaio scorso Francesco Berrilli e Stefano Scardigli, rispettivamente professore e ricercatore postdoc dell’Università di Roma Tor Vergata, si trovano presso la Stazione Polare Amundsen-Scott, in Antartide, per installare e rendere operativo il telescopio solare MOTH II. Questo telescopio verrà utilizzato in particolare per la ricerca astrofisica nel campo delle onde di gravità nell’atmosfera solare e della meteorologia spaziale. Il progetto, finanziato dalla National Science Foundation e coordinato da Stuart Jefferies, professore della Georgia State University, ha un piccolo supporto del PRIN-MIUR 2012. Il team è composto da ricercatori dell’Università delle Hawaii, Georgia State University, Università di Roma Tor Vergata, JPL e Agenzia Spaziale Europea.

La scelta del sito di osservazione è ricaduta sul Polo Sud per la lunga serie di vantaggi già elencati (altri li avevamo evidenziati poche settimane fa), ma tutte queste qualità si pagano col fatto che le messe a punto del telescopio e degli strumenti sul piano focale si effettuano all’esterno della stanza di controllo, che si trova sotto il ghiaccio per non generare turbolenza nell’atmosfera, a temperature percepite di -35/-40°C.

Telescopio montato con la struttura “Hammerschlag” per la soppressione del vento. Crediti: Francesco Berrilli

Il telescopio è composto da due canali operanti in righe del Sodio e del Potassio, e ha un cuore tutto italiano, essendo basato sui filtri magneto-ottici sviluppati negli anni ‘90 per applicazioni solari da un team del Dipartimento di Fisica delle Sapienza, allora coordinato da Alessandro Cacciani. I due canali permettono l’osservazione simultanea dei campi di velocità del plasma solare e del campo magnetico a due altezze della regione fotosferica/cromosferica dell’atmosfera della stella. Queste immagini, acquisite ad elevatissima cadenza e virtualmente senza interruzioni temporali, consentono l’analisi della dinamica del plasma e del campo magnetico della stella con risoluzioni temporali senza precedenti, aprendo la strada a nuovi algoritmi di predizione degli eventi solari, come ad esempio i brillamenti, e a nuovi strumenti di indagine in campo astrofisico con ricadute importanti per la nostra società tecnologica nel campo della meteorologia spaziale. Il progetto, che ha la durata di 3 anni, proseguirà con le campagne antartiche 2017-18 e 2018-19.

Stanza di controllo sotto il ghiaccio del telescopio solare MOTH II. Crediti: Francesco Berrilli

«Recarsi ai confini del mondo, in un deserto di ghiaccio, può sembrare strano per un ricercatore che voglia studiare il Sole. Eppure è proprio durante l’estate australe al polo sud geografico che troviamo condizioni osservative ottimali per lo studio della nostra stella», racconta ai microfoni di Media INAF Francesco Berrilli. «ll South Pole Solar Observatory si trova a 3.000 metri di quota, ha l’atmosfera più secca della Terra ed un seeing eccezionale, e inoltre consente di osservare la stella per mesi interi. L’osservatorio, con il suo telescopio a doppio canale basato su filtri magneto-ottici permette di acquisire immagini dei moti verticali del plasma fotosferico, con una sensibilità di 7 m/s in 5 secondi, e del campo magnetico fotosferico a più quote dell’atmosfera solare. Le lunghe serie temporali consentono poi di testare, con tecniche di eliosismologia locale ed analisi di segnale, algoritmi innovativi per lo studio della dinamica del plasma della stella e per la previsione dei brillamenti solari. Tali algoritmi sono ormai ritenuti di importanza strategica per gli studi connessi alla meteorologia spaziale e alla protezione delle infrastrutture tecnologiche».

«Da un punto di vista personale si è colpiti dal trovarsi in un punto geografico così importante», prosegue Berrilli, «dove tutte le longitudini e tutti i tempi finiscono per convergere, dove “esce” l’asse intorno a cui ruota l’intero mondo. Chi studia il cielo ha la fortuna e il privilegio di lavorare in luoghi remoti e magnifici, sui vulcani delle Hawaii, in Cile o alle Canarie. Ma qui siamo letteralmente su un altro pianeta, protetti nella South Pole Station ma in un ambiente ostile e a migliaia di chilometri dai più vicini ospedali e città. Siamo su un esopianeta ghiacciato ad osservare e studiare una stella che ricorda molto, molto il nostro Sole».

«Si tratta di un’esperienza incredibile, dal punto di vista scientifico ed umano», dice a Media INAF Stefano Scardigli. «Siamo all’interno di una macchina scientifica e tecnologica che ci permette di lavorare in condizioni ottimali in un ambiente totalmente ostile. Mi sento molto orgoglioso del privilegio che mi è concesso e di rappresentare l’Italia in questa missione. Dopo il primo stupore, dopo aver imparato ad utilizzare al meglio le attrezzature per le condizioni climatiche estreme a cui si è sottoposti, fatte proprie le regole, i rituali, i ritmi necessari a mantenere in sicurezza strutture e personale, ci si concentra sul lavoro. Ma basta un attimo e la mente fugge alle memorie di Amundsen, Scott, Shackleton… mentre lo sguardo si perde nella distanza infinita tra ghiaccio e cielo. Così si arriva a percepire la magia e il mistero dell’avventura umana».

Galassie “all you can eat” per buchi neri voraci

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Rappresentazione artistica d’un evento di distruzione mareale nella galassia F01004-2237. Il rilascio di energia gravitazionale prodotto dai detriti della stella che precipitano nel buco nero genera un intenso bagliore. Crediti: Mark Garlick

Divorano tutto, luce e materia, questo già lo sapevamo. Ma quanto divorano? O meglio: quanti pasti si concedono? Parliamo di buchi neri, naturalmente. Buchi neri supermassicci. Quelli che albergano nel cuore delle galassie, Via Lattea compresa. E che di tanto in tanto trangugiano una malcapitata stellina di passaggio. Ed è proprio per calcolare a quanto ammonta quel di tanto in tanto che un team di astronomi dell’università di Sheffield, nel Regno Unito, ha seguito per dieci anni, a partire dal 2005, un campione di 15 galassie ultraluminose nell’infrarosso. Tutte galassie nelle quali è in corso un episodio di “collisione cosmica” con galassie vicine. I risultati, pubblicati sull’ultimo numero di Nature Astronomy, si discostano non poco dalle stime esistenti: se le precedenti osservazioni suggerivano un ‘pasto stellare’ – più correttamente, un tidal disruption event (Tde), o evento di distruzione mareale – una volta ogni 10-100mila anni per ciascuna galassia, dunque fenomeni estremamente rari, i dati raccolti dagli astronomi inglesi grazie al William Herschel Telescope, alle Canarie, inducono a pensare che in realtà il fenomeno sia almeno 100 volte più frequente. Soprattutto durante gli episodi di merging, ovvero quando due galassie si scontrano.

Come hanno fatto a calcolarlo? Per prima cosa va detto che la similitudine del ‘pasto’, sebbene adottata dagli stessi ricercatori (che parlano, appunto, di ‘cannibalismo’), va presa per quel che è: in realtà, non c’è una stella più o meno imprudente o un buco nero più o meno affamato, ma è tutto un gioco d’interazioni gravitazionali e di scambi energetici. Fatta questa premessa, la nuova stima – ottenuta, va detto, da un campione alquanto ridotto – deriva dall’osservazione di emissioni anomale dalle galassie sotto indagine. Una luce che può essere interpretata come l’agonia della stella smembrata, l’urlo elettromagnetico della materia che avvampa: strappata dalla forza gravitazionale del buco nero, rilascia enormi quantità d’energia. Sono i cosiddetti flares, o bagliori, e finché durano appaiono luminosi come miliardi di stelle messe assieme. Ed è proprio uno di questi flare – avvistato nel 2010 in una delle galassie del campione, F01004-2237, a 1.7 miliardi d’anni luce da noi – ad aver costretto gli astronomi a rivedere le precedenti stime.

In particolare, gli scienziati hanno avuto conferma d’un aspetto in apparenza facile da intuire, almeno per noi profani, sebbene gli autori dello studio si dichiarino stupiti: «I nostri risultati sorprendenti mostrano che la frequenza degli eventi di tidal disruption aumenta drammaticamente quando le galassie si scontrano», spiega James Mullaney, uno degli autori dello studio. «Ciò è probabilmente dovuto al fatto che le collisioni fanno sì che, mentre due galassie si fondono l’una nell’altra, molte stelle inizino a formarsi nei pressi dei due buchi neri supermassicci centrali».

Un incremento d’attività che in un lontano futuro potrebbe riguardare anche la nostra galassia. «In base a quanto abbiamo osservato per F01004-2237», dice lo scienziato alla guida dello studio, Clive Tadhunter, «ci attendiamo che eventi di tidal disruption diventeranno comuni anche nella Via Lattea, quando nel giro di circa 5 miliardi di anni finirà per fondersi con la galassia di Andromeda. Guardando verso il centro della Via Lattea al momento della fusione, saremo allora in grado d’osservare un flare più o meno ogni 10 – 100 anni. Bagliori che risulteranno visibili a occhio nudo, superando in luminosità qualunque altra stella o pianeta nel cielo notturno».

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La prima volta di Suvi

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Questa straordinaria immagine del Sole è stata catturata lo scorso 29 gennaio dai sei canali, a differente lunghezza d’onda, dello strumento SUVI a bordo di GOES-16. In evidenza una grande buco coronale nell’emisfero meridionale della stella. Crediti: NOAA

Battesimo scientifico per Suvi, il Solar Ultraviolet Imager montato a bordo di Goes-16, il satellite lanciato nel novembre 2016 da Nasa.

Il Sole si sta avvicinando al suo periodo di minima attività, seguendo il ciclo della stella che si conclude ogni 11 anni. Durante questo periodo le potenti eruzioni lasciano il posto a spettacolari voragini nella corona solare. Con il termine buchi coronali ci si riferisce a regioni in cui la corona della nostra stella appare più scura per via del plasma che fuoriesce ad alta velocità verso lo spazio interplanetario, mettendo in evidenza un’area più fredda e a minore densità rispetto all’ambiente circostante.

Suvi è un telescopio spaziale per lo studio del Sole nella lunghezza dell’estremo ultravioletto. Toccherà a lui catturare immagini della nostra stella a maggiore definizione e un maggiore angolo di osservazione rispetto ai precedenti satelliti geostazionari Noaa. E le prime immagini non fanno che confermare le aspettative sul progetto Nasa.

La corona solare è composta da plasma ad altissima temperatura. Questo gas incandescente e altamente ionizzato interagisce con il potente campo magnetico del Sole, dando vita a movimenti convettivi di materiale che può raggiungere temperature di milioni di gradi. Fuori dal flusso convettivo della corona, si trovano regioni fredde e scure che possono esplodere diventando una fonte primaria di meteorologia spaziale. I buchi coronali, con le loro emissioni di plasma ad altissima velocità possono infatti rappresentare un concreto pericolo per i satelliti in orbita attorno alla Terra.

È dunque fondamentale studiare questo genere di fenomeni: a seconda della grandezza di un’eruzione solare, possiamo aspettarci o meno un fenomeno di disturbo del campo magnetico terrestre e prevenire l’eventuale impatto a reti elettriche e comunicazioni satellitari.

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Dove spariscono gli elettroni

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Sono le tempeste solari a innescare l’affascinante fenomeno dell’aurora polare. Crediti: Davide Coero Borga

È un fenomeno del tutto controintuitivo e, al momento, privo di una spiegazione. Sembra che nel corso delle tempeste solari, quando grandi quantità di plasma altamente ionizzato infrangono lo “scudo” del campo magnetico terrestre e si infilano nella ionosfera, gli elettroni presenti in atmosfera scompaiono misteriosamente in porzioni di cielo considerevoli (fra i 500 e 1000 chilometri di raggio). È quanto riporta uno studio condotto dalla Technical University di Danimarca insieme alle università di New Brunswick, il NASA Jet propulsion laboratory e l’università dell’Illinois, appena pubblicato sulla rivista Radio Science.

Quando si verifica un’eruzione sulla superficie del Sole, sappiamo che una nube di particelle elettricamente carica s’invola nello spazio in direzione Terra, dando vita a una vigorosa tempesta solare che (non tutto il male viene per nuocere) può anche innescare l’affascinante fenomeno dell’aurora boreale sulla regione artica.

La tempesta potrebbe però avere anche un forte impatto sull’efficienza dei sistemi di comunicazione e di navigazione a quelle latitudini. E per questo motivo è così importante studiare e comprendere sempre meglio questo genere di eventi.

Durante le tempeste solari, il plasma altamente ionizzato espulso dalla nostra stella riesce a penetrare la parte alta dell’atmosfera terrestre, detta ionosfera, a circa 80 chilometri dalla superficie del pianeta. Questo fenomeno si verifica principalmente ad alte latitudini, dove il campo magnetico è più sottile: particelle ed elettroni filtrano l’atmosfera anziché venire riflessi come succede normalmente. È un evento comune e che gli astrofisici hanno imparato a conoscere bene.

La notizia qui è un’altra, ovvero la misteriosa scomparsa di cariche negative da grandi regioni del cielo prossime al fenomeno. Mai registrata precedentemente.

«Abbiamo effettuato ampie misurazioni in corrispondenza di una tempesta solare che ha colpito la regione artica nel 2014: sorprendentemente, in un’area estesa fra i 500 e i 1000 chilometri situata a sud di una delle zone di sovraccarico elettrico e che gli scienziati chiamano patch, gli elettroni presenti in atmosfera sono stati misteriosamente risucchiati via, come da un potentissimo aspirapolvere», spiega Per Høeg della Technical University di Danimarca.

«Non potevamo prevedere qualcosa di simile. E anche ora che i dati ci mostrano questo bizzarro fenomeno, non abbiamo una spiegazione valida per descrivere perché sia avvenuto».

Una risposta agli interrogativi aperti va forse cercata nei processi geomagnetici che interessano il campo magnetico terrestre nella parte meno esposta all’eruzione solare, quella più distante dalla nostra stella.

«Il nostro lavoro può contribuire a rendere più sicura la navigazione nel corso delle tempeste ionosferiche che interessano la regione artica. Identificando i fattori critici che influenzano la qualità della navigazione satellitare ci consente progettare tecnologie capaci di gestire al meglio la situazione di emergenza e valutare la probabilità che si presentino», conclude Høeg.

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Tris di brillamenti solari psichedelici

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La sonda Sdo (Solar Dynamics Obersavatory) della Nasa osserva il Sole attentamente e senza sosta dal 2010. Due giorni fa ha assistito allo spettacolo di ben 3 brillamenti solari in 30 ore. Si tratta di esplosioni di radiazioni che si verificano sulla superficie della nostra stella madre, quando l’intreccio dei campi magnetici si riorganizza in maniera improvvisa ed esplosiva. Sono talmente potenti che le radiazioni arrivano fino sulla Terra, ma vengono schermate dalla nostra spessa atmosfera. Anche se effettivamente non sono nocive per l’uomo o per gli altri esseri viventi, le radiazioni solari creano parecchi problemi con i sistemi Gps e di comunicazione satellitare in generale.

Il primo flare (così si chiamano in inglese) è apparso alle 10:02 (ora italiana) di domenica 2 aprile e il secondo dopo pochi minuti, alle 10:33. Il terzo, invece, si è fatto attendere fino alle 16:29 di lunedì 3 aprile. I tre eventi sono stati “fotografati” dal telescopio spaziale Sdo e sono tutti di classe media: rispettivamente M5.3, M5.7 e M5.8. La classe M è circa un decimo della classe X (che sta per Extreme, estremo), cioè la più intensa per classificare i brillamenti solari.

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Il telescopio spaziale Sdo della Nasa ha catturato questa immagine del Sole lo scorso 2 aprile alle 10:02 (ora italiana) mentre era in corso un potente brillamento solare (il flash luminoso vicino al bordo superiore destro della nostra stella madre). La luce ultravioletta evidenzia il materiale estremamente caldo che sta fuoriuscendo dal Sole. Crediti: NASA/SDO

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Impulsi dai brillamenti solari anche sulla Terra

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Il satellite della Nasa Solar Dynamics Observatory ha catturato questo brillamento solare di classe X il 15 febbraio 2011. Crediti: NASA’s Goddard Space Flight Center/SDO

Nonostante la distanza che ci separa dal Sole, l’attività superficiale della nostra stella madre può avere effetti anche sul nostro pianeta. Il monitoraggio costante è il segreto per non arrivare impreparati. Gli esperti controllano il Sole di continuo con numerosi strumenti della Nasa, come il Solar Dynamics Observatory (Sdo) e il Geostationary Operational Environmental Satellite (Goes), e di recente due gruppi di ricercatori hanno osservato come i brillamenti solari più potenti mostrino degli impulsi o delle oscillazioni nell’emissione elettromagnetica, e in particolare quella ultravioletta. Come si formano questi brillamenti? Quanto influiscono sullo spazio circostante? Le oscillazioni arrivano anche sulla Terra?

Il primo studio è stato pubblicato su The Astrophysical Journal e descrive le impreviste oscillazioni registrate durante un brillamento del 15 febbraio 2011. Si tratta di un brillamento di classe X, il tipo più potente di queste intense esplosioni, e dato che già all’epoca gli scienziati avevano più strumenti di osservazione, sono stati in grado di tracciare le oscillazioni nella radiazione del brillamento confrontando i dati di diverse osservazioni.

Per provare che i dati sugli impulsi raccolti dallo strumento Goes della Nasa fossero corretti, gli esperti hanno fatto un controllo incrociato utilizzando anche il satellite Sdo, che osserva la luce e le radiazioni solari a diverse lunghezze d’onda. Cosa ci dicono del Sole queste oscillazioni? «Qualsiasi tipo di oscillazione sul Sole può raccontarci molto sull’ambiente in cui si stanno verificando le emissioni», ha dichiarato il primo autore dello studio, Ryan Milligan, fisico presso il Goddard Space Flight Center della Nasa e autore dello studio. «In questo caso, gli impulsi regolari di luce ultravioletta indicavano disturbi – simili a terremoti – che si stavano propagando attraverso la cromosfera, la base dell’atmosfera esterna del Sole, durante il brillamento». Milligan ha aggiunto: «I brillamenti sono molto localizzate, per cui è difficile rilevare le oscillazioni» isolandole dal rumore di fondo delle emissioni regolari del Sole.

Sappiamo già che queste potenti emissioni potrebbero essere nocive per l’uomo se non fossimo difesi dal campo magnetico terrestre. Tuttavia – se abbastanza intensi – possono disturbare il segnale dei satelliti che si trovano nell’orbita geostazionaria, quella dedicata alle comunicazioni. E proprio nel secondo studio, pubblicato questa volta su Journal of Geophysical Research: Space Physics, gli esperti hanno approfondito la connessione tra i brillamenti solari e la ionosfera, cioè lo strato “elettrificato” dell’atmosfera terrestre. In particolare, i fisici solari hanno studiato il brillamento di classe C (100 volte più debole di quello di classe X) del 24 luglio 2016 le cui oscillazioni sono arrivate fino alla regione D della ionosfera, cioè quella che reagisce con lo spazio circostante (radiazioni solari e altro).

La prima autrice di questo secondo lavoro, Laura Hayes del Trinity College di Dublino, ha spiegato che la regione D della ionosfera «influenza le comunicazioni e i segnali di navigazione. I segnali attraversano la regione D e le variazioni nella densità dell’elettrone influenzano l’assorbimento del segnale». Cosa vuole dire? I brillamenti solari, e ogni altro evento violento proveniente dal Sole, influisce in modo significativo sulle comunicazioni terrestri. Gli scienziati hanno utilizzato i dati provenienti da segnali radio a frequenza molto bassa per sondare gli effetti dei brillamenti sulla ionosfera: monitorando il modo in cui i segnali a bassa frequenza si propagano da un capo all’altro della ionosfera, gli scienziati possono mappare le variazioni della densità degli elettroni. Unendo questi dati a quelli raccolti da Goes e Sdo, i fisici hanno trovato che la densità degli elettroni della regione D “pulsava” in base alle oscillazioni provenienti dal Sole durante i brillamenti.

Hayes ha aggiunto: «Questo è un risultato emozionante, perché ci mostra che l’atmosfera terrestre è più legata alla variabilità dei raggi X solari di quanto si pensasse in precedenza. Ora abbiamo intenzione di esplorare ulteriormente questo rapporto dinamico tra il Sole» e la ionosfera.

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Il Sole in gabbia

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Secondo i ricercatori del Cnrs francese, dell’École Polytechnique, del Cea e dell’Inria, un solo fenomeno potrebbe essere alla base di tutte le eruzioni solari. Lo studio, presentato in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature, è così importante da essersi guadagnato la copertina. Gli scienziati coinvolti nella ricerca hanno identificato la presenza di una gabbia di confinamento all’interno della quale si forma una specie di corda, o treccia magnetica, responsabile delle eruzioni solari (flare, brillamenti solari). La resistenza di questa gabbia all’attacco della corda magnetica determina la potenza e il tipo di flare che si viene a verificare. Con questo lavoro i ricercatori hanno sviluppato un modello in grado di prevedere l’energia massima che può essere rilasciata durante un brillamento solare, che potrebbe potenzialmente avere conseguenze devastanti per la Terra.

Proprio come avviene sulla Terra, anche l’atmosfera del Sole è spazzata da tempeste e uragani. Sul Sole questi fenomeni sono causati da un improvviso e violento cambiamento del campo magnetico, e sono caratterizzati da un intenso rilascio di energia sotto forma di luce, emissione di particelle e, a volte, dall’espulsione di bolle di plasma. Studiare questi fenomeni, che si svolgono nella corona solare (la regione più esterna), consente agli scienziati di mettere a punto modelli in grado di prevederli, proprio come avviene per il meteo sulla Terra. Acquisire la capacità di prevedere eruzioni solari importanti dovrebbe limitare la nostra conseguente vulnerabilità tecnologica, che potrebbe avere un impatto su vari settori come, ad esempio, la distribuzione dell’elettricità, i Gps e sistemi di comunicazione in generale.

Nel 2014 i ricercatori avevano dimostrato che, nei giorni precedenti a un brillamento solare, appariva gradualmente una struttura caratteristica: un intreccio di linee di forza magnetiche attorcigliate insieme come i fili di una corda di canapa. Tuttavia, fino a poco tempo fa, queste strutture si erano osservate esclusivamente in eruzioni che portavano all’espulsione di una bolla di plasma. In questo nuovo studio, i ricercatori hanno studiato altri tipi di flare, i cui modelli sono ancora in discussione, facendo un’analisi più approfondita della corona solare, una regione dell’atmosfera del Sole talmente sottile e calda da rendere difficile una misura del campo magnetico. Gli autori sono stati in grado di misurare il campo magnetico più forte sulla superficie del Sole e, usando questi dati, hanno ricostruito quello che stava accadendo nella corona solare. Hanno poi applicato questo metodo a un grande flare che si è sviluppato in poche ore il 24 ottobre 2014, dimostrando che, nelle ore precedenti l’eruzione, la corda in evoluzione era confinata all’interno di una gabbia magnetica a più strati. Applicando i modelli evolutivi studiati a simulazioni effettuate su un super-computer, hanno dimostrato che la corda, in quel caso, non aveva un’energia sufficiente per sfondare tutti gli strati della gabbia, rendendo impossibile l’espulsione di una bolla magnetica. Nonostante questo, l’elevata torsione della corda ha innescato un’instabilità e la parziale distruzione della gabbia stessa, causando una potente emissione di radiazioni che ha portato ai disservizi riscontrati sulla Terra.

Gabbia e corda magnetica nella formazione di un’eruzione solare. Crediti: Nature

Grazie al loro metodo, che consente di individuare e monitorare i processi che si svolgono nelle ultime ore precedenti al flare, i ricercatori hanno sviluppato un modello in grado di prevedere la massima energia che può essere rilasciata dalla regione interessata. Il modello ha mostrato che nell’eruzione del 2014, se la gabbia non fosse stata così resistente, si sarebbe verificata un’enorme espulsione di plasma. Lo studio pubblicato oggi dimostra il ruolo cruciale svolto dal binomio magnetico “gabbia-corda” nel controllo delle eruzioni solari e, oltre a costituire un grande passo avanti verso la previsione di tali eruzioni, potrebbe avere un impatto sociale potenzialmente significativo. Per capire meglio quest’ultimo aspetto, che ci riguarda da vicino, abbiamo chiesto alcune delucidazioni a Salvo Guglielmino, fisico solare all’Università di Catania e associato Inaf.

Quanti flare potenzialmente pericolosi per la Terra si sviluppano sulla superficie del Sole in un giorno?

«I flare potenzialmente pericolosi per la Terra sono quelli di classe M e X, secondo la classificazione attualmente in uso che è basata sull’emissione nei raggi X. Si può dire in generale che quelli più pericolosi siano quelli di classe X. In realtà, a determinare la pericolosità non è solo la classe, ma anche la configurazione magnetica della nube di plasma eiettata nello spazio interplanetario, detta Coronal Mass Ejection (Cme), di solito associata a questi flare più energetici: può accadere quindi che un flare M (più debole) emetta un Cme con effetti sulla Terra (tempeste magnetiche) più importanti rispetto a un flare X (più forte). Quanti di questi eventi si possono verificare in un giorno? Non c’è in effetti un limite teorico: essi si sviluppano sulle regioni attive, a seguito di conversione di energia magnetica in energia cinetica (accelerazione di particelle) e termica, tramite riconnessione magnetica. In ciascuna regione attiva, quindi, occorre nella maggior parte dei casi un po’ di tempo (da ore a giorni) per “ricaricare” energia magnetica sufficiente per generare un altro flare. I flare X avvengono quindi dopo un certo periodo in cui l’energia magnetica si è accumulata, e sono spesso seguiti da flare più deboli (classi C e M), piuttosto che da un altro flare X. O viceversa, dopo una serie di eventi minori c’è un grande flare X. Diciamo che c’è una qualche analogia con i terremoti sulla Terra. D’altra parte, il numero di regioni attive può essere elevato nei periodi di massimo di attività solare, per cui in ciascuna di esse possono avere luogo flare X, in maniera indipendente dalle altre regioni attive, in base alla configurazione magnetica più o meno complessa di ciascuna».

Quanti eventi pericolosi si sono verificati in passato?

Flare del 31 agosto 2012. La coronal mass ejection ha viaggiato a oltre 1500 km al secondo, causando le aurore boreali del 3 settembre. Crediti: Nasa/Gsfc/Sdo

«Negli ultimi 20 anni sono stati registrati solo una decina di eventi di classe X10 (cioè circa 10 volte più potenti di un flare X), di cui solo uno nel ciclo attuale, il 24, nello scorso settembre 2017 (erano più di 10 anni che non accadeva). Questi flare sono quelli reputati più pericolosi, perché ovviamente più energetici. Di flare X “normali”, diciamo che è molto raro dal punto di vista statistico che ne avvengano più di 10-15 al giorno (su tutto il disco) nel periodo di massimo».

Conoscere con qualche ora di anticipo quando si verificherà un flare, e con che potenza, come ci aiuta?

«Se sappiamo con qualche ora di anticipo quando avverrà un flare, e quindi il possibile arrivo di una tempesta geomagnetica determinata dal Cme associato, ci sono dei vantaggi per la sicurezza. Per esempio, si sa che le particelle accelerate dai flare possono provocare radiazioni ionizzanti nell’alta atmosfera in prossimità delle regioni polari della Terra, dove il campo magnetico terrestre esercita una minore azione schermante. Pertanto, i passeggeri e l’equipaggio degli aeromobili che si trovassero in volo nelle regioni polari, tipicamente previste per le rotte intercontinentali a lungo raggio, riceverebbero una dose di radiazioni ionizzanti pari a decine, se non centinaia, di radiografie durante un unico volo. Il sapere con anticipo che un flare potenzialmente “pericoloso” sta per avere luogo può portare a una riprogrammazione accurata delle rotte dei voli. Similmente, il sistema di localizzazione Gps viene disturbato dalle particelle in arrivo, determinando errori di posizione fino a qualche centinaio di metri. Nelle rotte navali e aeree, questi errori possono essere tempestivamente corretti tramite navigazione assistita con radiofaro e altri accorgimenti, e conoscere in anticipo la possibilità che questi problemi possano verificarsi aiuta una gestione migliore delle emergenze. Ecco, questi sono solo alcuni degli esempi possibili, ma probabilmente quelli che hanno un maggior impatto sulla popolazione».

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Cristalli di Sole primordiale

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Illustrazione raffigurante il disco solare primordiale. Nell’inserto un cristallo di hibonite blu, uno dei primi minerali a formarsi nel Sistema solare. Crediti: Field Museum, University of Chicago, Nasa, Esa, and E. Feild (STScl)

Nato 4.6 miliardi di anni fa, conosciamo il Sole come una stella matura e calma. Ma i suoi primi anni rimangono un mistero. Poiché la Terra si è formata circa 50 milioni di anni dopo, è difficile trovare residui di quei primi giorni del nostro angolo di universo, in grado di raccontarci qualcosa di un giovane Sole.

Ma un nuovo studio, pubblicato su Nature Astronomy, ci racconta di un Sole neonato irrequieto, grazie all’analisi di microscopici cristalli blu ghiaccio intrappolati in antiche meteoriti. «Questi cristalli si sono formati oltre 4.5 miliardi di anni fa e conservano la registrazione di alcuni dei primi eventi che hanno avuto luogo nel nostro Sistema solare, e anche se sono così piccoli – molti hanno diametro inferiore ai 100 micron – erano ancora in grado di mantenere questi gas nobili altamente volatili che sono stati prodotti attraverso l’irradiazione dal giovane Sole tanto tempo fa», dice Levke Kööp, postdoc dell’Università di Chicago affiliata al Field Museum, autrice principale dello studio.

Un minuscolo cristallo di hibonite blu proveniente dal meteorite Murchison. Crediti: Andy Davis, University of Chicago

I cristalli sono contenuti in minerali noti come hibonite, la cui composizione reca segni distintivi di reazioni chimiche che si potevano verificare solo se il giovane Sole avesse emesso molte particelle energetiche. Prima della formazione dei pianeti, il Sole era circondato da un enorme disco di gas e polveri che gli spiraleggiava intorno e la cui regione più vicina era molto, molto calda: più di 1500°C ( per confronto, il pianeta più caldo nel Sistema solare oggi, Venere, raggiunge in superficie solo 467°C, comunque sufficienti a sciogliere il piombo). Quando il disco si raffreddò, i primi minerali cominciarono a formarsi: cristalli di hibonite blu. «I grani minerali più grandi delle antiche meteoriti sono solo alcune volte il diametro di un capello umano. Quando guardiamo una pila di questi granelli al microscopio, i grani di hibonite si distinguono come piccoli cristalli blu chiaro: sono piuttosto belli», commenta Andy Davis, coautore dello studio, anch’egli affiliato al Field Museum e all’Università di Chicago. Questi cristalli contengono elementi come calcio e alluminio.

«Quasi nulla nel Sistema solare è abbastanza vecchio da confermare davvero l’attività del primo Sole, ma questi minerali provenienti dalle meteoriti nelle collezioni del Field Museum sono sufficientemente antichi: sono probabilmente i primi minerali che si sono formati nel Sistema solare», aggiunge Philipp Heck, curatore del Field Museum e professore all’Università di Chicago, che ha lavorato allo studio.

Quando i cristalli si erano appena formati, il giovane Sole continuava a emettere flare, sparando nello spazio protoni e altre particelle subatomiche. Alcune di queste particelle investivano i cristalli di hibonite e quando i protoni colpivano gli atomi di calcio e di alluminio al loro interno, gli atomi si dividevano in atomi più piccoli: neon ed elio. Tali gas nobili sono rimasti intrappolati all’interno dei cristalli per miliardi di anni e i cristalli a loro volta sono finiti inglobati in rocce che alla fine sono cadute sulla Terra come meteoriti.

Levke Kööp, l’autrice principale, in laboratorio. Crediti: Field Museum

Qui, gli scienziati nel tempo hanno esaminato le meteoriti alla ricerca dei segni di un giovane Sole attivo, ma non trovando nulla. Osserva però Kööp: «Se le persone in passato non li hanno visti, questo non significa che non fossero lì, potrebbe semplicemente indicare che non avessero strumenti abbastanza sensibili per trovarli». Lo strumento a disposizione di Kööp, Heck e colleghi, infatti, ha fatto la differenza: uno spettrometro di massa all’avanguardia, grande come un garage, in grado di  rilevare l’elio e il neon rilasciati da un grano di hibonite colpito da un laser. «Abbiamo ottenuto un segnale sorprendentemente ampio, che mostra chiaramente la presenza di elio e neon: è stato stupendo», afferma Kööp.

Il rilevamento di elio e neon fornisce la prima prova concreta dell’attività precoce del Sole. «Sarebbe come se conoscessi qualcuno come un adulto calmo – avresti ragione di credere che una volta fosse un bambino attivo, ma non avresti nessuna prova. Se potessi però andare nella sua soffitta e trovare i suoi vecchi giocattoli rotti e libri con pagine strappate, sarebbe la prova che quella persona una volta era un bambino decisamente agitato», dice Heck, e aggiunge: «Il Sole era molto attivo nei suoi primi anni di vita, aveva più eruzioni ed emetteva un flusso più intenso di particelle cariche. Mi ricorda mio figlio, ha tre anni ed è veramente iperattivo».

«Oltre a trovare finalmente prove chiare nelle meteoriti che i materiali del disco furono irradiati direttamente, i nostri nuovi risultati indicano che i materiali più antichi del Sistema solare hanno subito una fase di irradiazione che invece quelli più giovani hanno evitato. Pensiamo che ciò significhi che un grande cambiamento accadde nel Sistema solare in formazione dopo che l’hibonite si era costituita; forse l’attività del Sole diminuì, o forse i materiali formatisi più tardi non furono in grado di viaggiare verso le regioni del disco in cui era possibile l’irradiazione», spiega Kööp.

Diversamente da altri indizi della forte attività del Sole giovane rispetto a oggi, la composizione dei cristalli di hibonite non permette altre buone spiegazioni. «È sempre bello vedere un risultato che può essere interpretato chiaramente. Più semplice è una spiegazione, maggiore è la fiducia che abbiamo in essa», dichiara Heck, e conclude: «Ciò che ritengo eccitante è che questo ci parla delle condizioni nel Sistema solare primitivo, e infine conferma un sospetto di vecchia data. Se comprendiamo meglio il passato, acquisiremo una migliore comprensione della fisica e della chimica del nostro mondo naturale».

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Nel 1859 la tempesta geomagnetica più potente

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Il diagramma del brillamento solare del 1 settembre 1859 tracciato dal suo scopritore, l’astronomo inglese Richard Carrington. Gli archi del flare sono indicati dalle lettere A, B, C e D. Questo brillamento è ritenuto il più intenso finora registrato almeno negli ultimi 2000 anni

Generò aurore boreali visibili fino a Roma e a Cuba la più violenta tempesta geomagnetica mai osservata che si verificò 160 anni fa. Chiamata evento di Carrington-Hodgson’, mandò in tilt le linee telegrafiche. Oggi, un evento simile genererebbe black out elettrici e manderebbe ko il 50 per cento dei satelliti. Alcuni Paesi si sono organizzati per difendersi, a partire dagli Usa, ma in Italia, secondo gli esperti, manca un piano nazionale per far fronte a un’emergenza dovuta a una tempesta geomagnetica estrema.

L’evento che si verificò l’1 e il 2 settembre del 1859 fu dovuto a eruzioni solari, di cui una molto violenta, che scagliarono nello spazio sciami di particelle del Sole e che furono osservate dagli astronomi britannici Richard Carrington e Richard Hodgson. Quando colpirono la Terra, gli sciami causarono una tempesta geomagnetica estrema, di livello superiore a G5, nella scala dell’ente americano per le ricerche sull’atmosfera e gli oceani (Noaa) che classifica questi eventi da 1 a 5, secondo il fisico solare Mauro Messerotti, dell’Osservatorio di Trieste dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e università di Trieste.

«La tempesta», spiega all’Ansa Messerotti, «mise ko il sistema telegrafico, con i cavi che si fusero perché erano in rame e captavano le correnti elettriche generate nella ionosfera terrestre dall’evento». Oggi un evento così estremo potrebbe causare danni per miliardi di dollari e potrebbe richiedere anni per il completo recupero, perché metterebbe fuori uso centrali elettriche, comunicazioni radio e satelliti. Secondo Messerotti, più del 50% della flotta dei satelliti potrebbe essere messa ko, con tutte le conseguenze, dalle telecomunicazioni, a internet, al gps. Secondo l’esperto un evento così estremo avrebbe effetti su tutto il pianeta e si ci può difendere con piani di emergenza per far fronte alle conseguenze. Quello americano coinvolge Protezione civile e organizzazioni militari: prevede un coordinamento nazionale e la collaborazione fra gli Stati, che vanno in soccorso della popolazione con generatori elettrici, acqua, cibo e carburante. Invece in Italia, rileva Messerotti, «non c’è un piano nazionale per far fronte a un’emergenza da tempesta geomagnetica estrema» e l’esperto consiglia di metterlo a punto. In Europa, conclude,  «vari Paesi si sono organizzati, ma bisognerebbe arrivare a un piano coordinato a livello europeo».

Il ruggito della nana bruna

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Rappresentazione artistica del potente brillamento prodotto dalla stella nana bruna J0331-27. Crediti: Esa

Una piccola stella, di massa pari a circa l’otto per cento di quella del Sole, è stata osservata emettere un brillamento – flare, in inglese – molto intenso di raggi X. La stella, nota con la sigla J0331-27, appartiene alla categoria delle nane brune di classe L. La sua massa è appena sufficiente per innescare al suo interno le reazioni nucleari che producono l’energia emessa. La scoperta, ottenuta da un team guidato da ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica grazie alle osservazioni del telescopio spaziale Xmm-Newton dell’Esa, sorprende la comunità scientifica. Fino ad ora infatti nessuno aveva pensato che eruzioni ad alta energia così potenti potessero essere prodotte da stelle di massa così piccola.

Il brillamento di raggi X prodotto da J0331-27 è stato osservato il 5 luglio 2008 dallo strumento Epic (European Photon Imaging Camera) a bordo dell’osservatorio per raggi X Xmm-Newton. Nel giro di pochi minuti, la minuscola stella ha liberato una quantità di energia oltre dieci volte maggiore dei più intensi brillamenti prodotti dal Sole.

Le attuali teorie indicano che i flare sono innescati da un improvviso rilascio di energia magnetica generata all’interno della stella. Questo fa sì che siano le particelle cariche a riscaldare il plasma sulla superficie stellare, rilasciando così grandi quantità di radiazioni nell’ottico, nell’ultravioletto e nei raggi X. Il processo permette di rilasciare gran parte dell’energia immagazzinata nella stella: è proprio su questo aspetto che le nuove osservazioni pongono il rompicapo più grande per gli scienziati, poiché non si aspettavano che le nane brune di classe L potessero immagazzinare abbastanza energia nei loro campi magnetici da dare origine a esplosioni di tale portata. Questo perché l’energia può essere immessa nel campo magnetico di una stella solo da particelle cariche, note anche come materiale ionizzato. Tale materiale viene creato in ambienti ad alta temperatura, ma J0331-27, per la classe a cui appartiene, ha una temperatura molto bassa: appena 2100 kelvin (rispetto ai 6 mila kelvin del Sole). A tali temperature si pensava non fosse possibile generare particelle cariche a sufficienza per alimentare così tanta energia nel campo magnetico.

«Questa è la parte scientificamente più interessante della scoperta» dice Beate Stelzer, dell’Istituto per l’astronomia e l’astrofisica di Tubinga in Germania, ora in forza all’Inaf di Palermo. La ricercatrice è nel team che ha realizzato lo studio, pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Comparazione delle dimensioni di alcuni corpi celesti. Dall’alto verso il basso: il nostro Sole, una stella di piccola massa, una nana bruna, il pianeta Giove e infine la nostra Terra. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Ucb

Com’è possibile quindi che una stella così fredda riesca a produrre un brillamento del genere? A questa domanda non c’è ancora una risposta certa. Su J0331-27, inoltre, è stato registrato un solo brillamento, nonostante la stella sia stata osservata, in varie riprese, per un totale di 3,5 milioni di secondi da Xmm-Newton, ovvero quasi mille ore. «Questo fatto sembra implicare che una nana bruna di classe L impieghi un tempo maggiore rispetto a una stella più grande per accumulare energia, che poi viene rilasciata improvvisamente con un brillamento di grande entità», aggiunge Stelzer.

Il super flare è stato scoperto analizzando lo sterminato catalogo di circa 400 mila sorgenti di raggi X di Xmm-Newton nell’ambito del progetto Extras, finanziato dall’Unione europea e coordinato da Andrea De Luca, dell’Inaf di Milano.

Il team, alla ricerca di fenomeni particolari, ha trovato “pane per i suoi denti” proprio con J0331-27. Alcune stelle simili a essa sono state osservate emettere flare molto potenti nella banda della radiazione visibile, ma questo è il primo rilevamento inequivocabile di un super flare nei raggi X. La lunghezza d’onda è significativa perché indica da quale regione dell’atmosfera stellare proviene il super brillamento. La luce nella banda ottica proviene dagli strati più profondi dell’atmosfera della stella, in prossimità della sua superficie visibile, mentre i raggi X vengono prodotti in una zona più alta dell’atmosfera.

Comprendere le affinità e le differenze tra questo nuovo super flare e quelli osservati in precedenza è ora una priorità per il team. Ma per farlo, è fondamentale trovare altri eventi simili. «C’è ancora molto da scoprire negli archivi», dice De Luca, «In un certo senso credo che questa sia la punta dell’iceberg».

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo EXTraS discovery of an X-ray superflare from an L dwarf di Andrea De Luca, Beate Stelzer, Adam J. Burgasser, Daniele Pizzocaro, Piero Ranalli, Stefanie Raetz, Martino Marelli, Giovanni Novara, Cristian Vignali, Andrea Belfiore, Paolo Esposito, Paolo Franzetti, Marco Fumana, Roberto Gilli, Ruben Salvaterra e Andrea Tiengo

 

Lampi gamma, magnetar e ritardi rivelatori

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Illustrazione di un giant flare prodotto da una magnetar. Crediti: Nasa

La settimana scorsa, durante il 237esimo meeting dell’American Astronomical Society (Aas), sono stati presentati ben quattro paper che illustrano i diversi aspetti della scoperta di una nuova magnetar, una stella di neutroni dal campo magnetico estremamente intenso. Ma non una magnetar qualsiasi. Osservata sotto forma di lampo gamma corto lo scorso 15 aprile, si trova in una galassia a 11,5 milioni di anni luce da noi, ed è una delle più distanti tra le circa trenta magnetar note ad oggi.

E non solo. È l’unica per la quale sia mai stato registrato un brillamento gigante, o giant flare, accompagnato da emissione gamma ad alta energia. Parliamo di gigaelettronvolt, o GeV, ovvero miliardi di eV (in confronto, la luce visibile con i nostri occhi ha energie pari a qualche eV), la porzione dello spettro elettromagnetico che svela alcuni dei fenomeni più potenti e straordinari del cosmo, sulla quale vigila il satellite Fermi della Nasa e in particolare in uno dei suoi due detector – il Large Area Telescope, o Lat.

Per fare chiarezza sul significato della scoperta, Media Inaf ha raggiunto in California l’astrofisico Nicola Omodei, tra gli autori di uno dei quattro studi. Nato a Brescia, laurea all’Università di Pisa, dottorato all’Università di Siena in collaborazione con l’Infn di Pisa, Omodei è stato coordinatore dell’analisi Fermi Lat allo Slac National Accelerator Laboratory negli Stati Uniti e dal 2010 è ricercatore presso l’Università di Stanford. Oltre al lavoro in Fermi, è membro dell’esperimento Hawc (High Altitude Water Cherenkov Gamma-Ray Observatory) in Messico e della futura missione Nasa/Asi Ixpe (Imaging X-ray Polarimetry Explorer), e fa parte del Kavli Institute for Particle Astrophysics and Cosmology.

Dottor Omodei, ci spiega cosa sono queste magnetar e perché questo caso è particolarmente interessante?

«Una magnetar è una stella di neutroni con un campo magnetico particolarmente alto, da 1013 a 1015 gauss, molto più elevato rispetto a una tipica stella di neutroni. Si pensa che una stella di neutroni viva la sua vita da magnetar per un breve periodo, non per sempre, perché questo campo magnetico si dissipa. L’emissione delle magnetar si può differenziare in tre tipi: emissione lunga nell’X, che dura per anni; poi ci possono essere dei flare ricorsivi che durano per qualche frazione di secondo; e poi ci sono dei giant flare, anche questi della durata di frazioni di secondo, ma con energie nettamente più alte. In passato si sono osservati flare giganti da magnetar in altre galassie vicine alla Via Lattea, però non si era mai vista, in questi casi, un’emissione nel GeV. La cosa veramente sorprendente per noi è stata vedere un segnale nelle alte energie con il telescopio Lat».

L’astrofisico Nicola Omodei, ricercatore all’Università di Stanford in California

Lei è stato coinvolto direttamente in questa scoperta. Ci può raccontare com’è andata?

«La ricerca è iniziata in aprile. In quei giorni facevo il burst advocate, si tratta di un turno che dura una settimana, in cui si monitora il cielo per vedere se c’è un gamma-ray burst (Grb). In caso di detection il burst advocate scrive una circolare, chiamata Gcn (Gamma-ray Coordination Network), e la invia ad una mailing list che serve da allerta ad altri osservatori. In questo modo si comunica che è stato visto un incremento del segnale gamma in questa zona del cielo.

Il 15 aprile sembrava un giorno normale, quando abbiamo visto uno short Grb nel Lat, che coincideva con uno short Grb visto nell’altro rivelatore di Fermi, il Gbm (Gamma-ray Burst Monitor). Come da protocollo abbiamo mandato una Gcn per sollecitare le osservazioni da parte di altri osservatori, il così detto follow-up. In effetti altri osservatori hanno visto simultaneamente la stessa sorgente, comunicandolo tramite Gcn. La cosa curiosa è che subito, appena fatta la triangolazione dei dati, la posizione del burst coincideva con una galassia vicina, la Ngc 253, detta anche Sculptor galaxy (in italiano si chiama galassia dello Scultore)».

Aspetti, che cosa significa fare la triangolazione di un Grb?

«Per localizzare la posizione del Grb nel cielo, si usa l’Interplanetary Network (Ipn) che usa i tempi di arrivo del segnale nei diversi satelliti in funzione della loro posizione. Funziona un po’ come il Gps, in cui abbiamo il segnale di tempo da tanti satelliti e si usa il ritardo relativo per triangolare la posizione sulla Terra.

Il risultato ci ha un po’ sorpreso tutti perché un Grb così vicino è estremamente improbabile, quindi doveva trattarsi di qualche cosa di diverso. In particolare, guardando poi i dati, e soprattutto il lavoro fatto dalla collaborazione Gbm, ci si è accorti che la curva di luce di quel Grb era particolarmente peculiare: era molto più corta di quello che generalmente ci si aspetta. Infatti la durata dell’impulso nell’X era di soli 140 millisecondi. In seguito ci potrebbe essere stata un’emissione più debole che però è difficile da capire visto che la sorgente, pur essendo estremamente vicina come Grb, come magnetar è comunque lontana, in una galassia al di là della Via Lattea».

Perché un Grb così vicino sarebbe improbabile?

«Più o meno ci si aspetta che i Grb siano distribuiti uniformemente nel cielo poiché provengono da distanze cosmologiche quindi non legati alla distribuzione delle galassie nell’universo locale. Quindi per prima cosa abbiamo cercato di capire se il segnale del Lat si poteva associare davvero con il segnale ad energie più basse visto dal Gbm e da altri strumenti, studiando la pura associazione spaziale e la probabilità che questo segnale provenisse dalla galassia Ngc 253 e non da una sorgente cosmologica. La probabilità di avere un segnale random che coincida esattamente con la galassia dello Scultore è molto bassa: ci si aspetta un evento ogni circa 200 anni. Quello che fa diminuire notevolmente la probabilità di una coincidenza random è l’associazione temporale, cioè vedere il segnale che coincida con un Grb corto».

Ma dunque è o non è un Grb?

«È una domanda interessante. Secondo me la vera risposta è che questo evento è stato osservato come un segnale impulsivo che dura poco, meno di due secondi, quindi come un Grb corto. Però quando consideriamo la distanza della sorgente, l’energia è risultata molto minore rispetto a un Grb cosmologico. In qualche modo rigirerei il discorso così: due stelle di neutroni, che interagiscono tra di loro e collassano, emettono Grb corti, anche cosmologici. Questo è stato appurato dalle osservazioni simultanee di onde gravitazionali e di Grb corti (la famosa kilonova del 2017, ndr). Adesso, grazie a questi nuovi risultati, sappiamo che una magnetar, anche in una galassia vicina a noi, a seguito di un evento catastrofico, o comunque molto energetico, può emettere una radiazione che simula un Grb corto. Quindi, potremmo dire che alcuni Grb corti forse sono stati emessi da magnetar in galassie vicine. Una cosa è quello che si osserva, che sono Grb corti in entrambi i casi, e un’altra è quello che in realtà emette questa radiazione».

Illustrazione del ritardo tra i segnali ricevuti dai due rivelatori del satellite Fermi il 15 aprile 2020. Crediti: Nasa

Come si fa a capire che si tratta di una magnetar?

«Il nostro lavoro, nella collaborazione Lat, si basa sull’identificazione della sorgente come magnetar fatta da altri telescopi. Secondo noi è molto importante che per la prima volta in un giant flare da magnetar venga vista l’emissione GeV, che deve essere associata alla presenza di materia emessa con velocità relativistica. Infatti, una peculiarità che abbiamo osservato, per la prima volta in maniera evidente, è che i fotoni di alta energia rilevati dal Lat arrivino una decina di secondi dopo il segnale di bassa energia catturato dal Gbm.

Per spiegare questa unicità, abbiamo disegnato un semplice modello che vede una magnetar che, muovendosi nel mezzo interstellare, crea quello che si chiama un bow shock. Esempi di bow shock formati da stelle di neutroni locali sono stati osservati, mentre per questa sorgente, essendo troppo lontana, non si può osservare direttamente il bow shock, ma si può assumere che ce l’abbia. Quindi, prendendo come punto di partenza l’istante in cui il plasma è stato emesso dalla magnetar, se si assume che il plasma si muova a velocità relativistica, il momento in cui il plasma interagisce con il bow shock risulta ritardato di dieci secondi rispetto al segnale rilevato dal Gbm. Questo è proprio il ritardo osservato nei dati del Lat».

Evviva il ritardo, è quasi il caso di dire. Quindi cosa ci dicono di nuovo questi dati sul funzionamento delle magnetar?

«Queste osservazioni ci dicono che forse vicino alle magnetar ci sia un outflow relativistico, ovvero che questi oggetti possano emettere plasma a velocità molto vicine a quella della luce.

Per le magnetar osservate nella nostra galassia, questi giant flare hanno un impulso molto corto seguito da un rilassamento con dei picchi più o meno periodici. Si assume che questi picchi siano legati al tempo di rotazione della magnetar, come se fosse un faro che punta verso la Terra e, girando molto velocemente, anche in frazioni di secondo, può emettere una radiazione impulsiva che decresce. I flare giganti sono sempre stati associati a eventi abbastanza catastrofici che avvengono sulla superficie di queste stelle, sono caratterizzati da una forte emissione di energia – forse dovuta alla riconnessione magnetica o alla rottura della crosta della stella – che poi diminuisce nei giri successivi. Non è chiaro se la magnetar sopravviva dopo questi eventi o se la riconfigurazione del campo magnetico della stella di neutroni sia così catastrofica da determinare la fine della sua esistenza come magnetar. Quello che possiamo dire con certezza è che ad oggi non era mai stata osservata emissione al GeV, e questa è difficile che avvenga vicino alla stella: per avere emissione ad alta energia c’è bisogno di particelle accelerate ed è difficile accelerarle vicino alla stella, i forti campi magnetici inibirebbero l’emissione.

Illustrazione del bow shock di una magnetar in moto attraverso il mezzo interstellare. Crediti: Nasa

Si pensa invece che un meccanismo più consono per accelerare particelle ad alte energie sia quello degli shock, osservato in altri tipi di sorgenti quali supernova remnant e anche Grb, in cui le particelle accelerate emettono energia di sincrotrone, interagendo con i campi magnetici. Osservare nel GeV ci fa pensare a un’emissione che avviene a grande distanza dalla stella: tutti i numeri si allineano con la distanza tipica di un bow shock da una stella di neutroni, che corrisponde a 8×1010 km. Il raggio di una stella di neutroni è solo decine di km, quindi parliamo di 9 ordini di grandezza più lontano».

Le osservazioni risalgono allo scorso aprile, in piena prima ondata della pandemia. Com’è stato gestire una collaborazione internazionale di questo calibro nel mezzo del lockdown?

«In realtà, essendo dati da satellite, siamo abituati a lavorare in remoto, quindi non c’è stato niente di diverso dal solito, nessun lockdown del satellite come per esempio è successo agli osservatori sulla Terra. I dati vengono processati automaticamente, negli anni ci siamo abituati tutti a lavorare più da remoto e la tecnologia è molto migliorata. Siamo comunque una collaborazione internazionale con ricercatori sparsi su tutti i continenti, che lavora da oltre una decade incontrandosi regolarmente online ad orari disparati».

Quali saranno i prossimi passi?

«Chiaramente sarebbe bello osservare più eventi come questo. Ci sono molti Grb noti per i quali possiamo misurare la distanza, ma per molti altri non la conosciamo. Abbiamo sempre associato i Grb a sorgenti cosmologiche, ma si potrebbe cercare negli archivi per vedere se qualcuno corrisponda a una sorgente più vicina anche senza essere stato classificato come giant flare da magnetar. Anche se le caratteristiche dell’evento di aprile sono davvero peculiari, è l’unico che sembra essere un outlier. Speriamo di ottenere osservazioni simili in futuro».

I Grb non si ripetono, sono eventi “transienti”, quindi negli archivi ci sono una serie di osservazioni uniche effettuate nel corso degli anni. Invece i giant flare da magnetar possono ripetersi?

«Non si ripetono, o almeno non si sa. Diciamo che potrebbero essere eventi catastrofici che segnano la fine della fase magnetar della stella di neutroni, e quindi non ripetersi. Oppure potrebbero non rappresentare un evento cataclismico ma comunque si ripeterebbero su tempi scala estremamente lunghi. Per quanto riguarda l’emissione ad alte energie, Fermi è l’unico strumento in grado di osservarli e, di fatto, è l’unico strumento che apre la finestra osservativa nel GeV».

Durante la conferenza stampa al meeting dell’Aas si è parlato anche del legame con un altro fenomeno, osservato nell’altro estremo dello spettro elettromagnetico: i lampi radio veloci, o fast radio burst (Frb). C’è un legame tra questi fenomeni?

«Una cosa molto interessante è che il 28 aprile, ovvero pochi giorni dopo il nostro evento, sempre a un flare di magnetar (questa volta appartenente alla nostra galassia) è stato associato anche un Frb. È curioso che nell’arco di un mese lo stesso tipo di sorgente si sia rivelata come possibile origine sia di Grb che di Frb.

Sarebbe bello poter avere una coincidenza tra un Frb, un Grb e un giant flare emessi da una stessa magnetar, per ora abbiamo cercato emissione ad alta energia in Frb noti e non abbiamo trovato nulla, ma finora non ci si aspettava di trovare tale emissione ad alta energia. Infatti si pensava che i giant flare fossero eventi legati a quello che accade vicino alla stella, quindi ci si aspettava radiazione X, radio ma non gamma. Ma questo è il fascino della scienza, essere sorpresi da osservazioni inaspettate, vedremo come riusciremo a spiegarle in futuro. Per esempio se si pensa ai solar flares (i brillamenti solari) molto probabilmente l’emissione a energie GeV è legata a uno shock tra un’espulsione di massa coronale dal Sole e il mezzo interstellare, molto più lontano. Il fenomeno è completamente diverso, ma l’emissione ad alta energia è spesso associata a shock e questi avvengono lontano dalla stella».

Interessante questo collegamento con i flare solari, di cui fra l’altro è appena uscito il primo catalogo basato sui dati Fermi Lat. Di quali altri fenomeni si interessa?

«Mi sono sempre occupato di transienti: tutto quello che nel cielo produce un flash di radiazione di qualche secondo o qualche minuto. Da una parte ci sono i Grb, nel corso di questi anni ho sviluppato strumenti di analisi utilizziati nella collaborazione Lat, e dall’altra mi sono anche occupato di solar flare. C’è una certa similitudine tra questi, entrambi sono flash di radiazione, anche se ovviamente l’origine è completamente diversa: i Grb provengono da stelle che esplodono molto lontane da noi, mentre i brillamenti solari vengono dal Sole.

Ho iniziato a lavorare nella collaborazione Fermi Lat 20 anni fa, quando lo strumento era ancora in costruzione. Ai tempi ero ancora in Italia, all’Infn di Pisa, dove abbiamo costruito parte del tracciatore del Lat, che è poi stato spedito negli Stati Uniti e assemblato insieme ad altre parti. Il satellite è stato lanciato nel 2008, io mi sono trasferito negli Stati Uniti nel 2009 e continuo a lavorare per Fermi Lat qui a Stanford. Recentemente mi sono anche interessato alla ricerca della controparte elettromagnetica delle sorgenti di onde gravitazionali, sempre nei dati Lat. Finora non abbiamo trovato nulla: la probabilità di trovare un Grb corto che coincida con un’onda gravitazionale per ora è abbastanza bassa, ma chiaramente bisogna essere pronti».