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Se il Sole è una stella danzante

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Crediti: NASA / Solar Dynamics Observatory.

Crediti: NASA / Solar Dynamics Observatory.

È un sottile groviglio di fili intrecciati, il getto di plasma che danza nello spazio della corona solare e ritratto in questo suggestivo scatto della sonda NASA Solar Dynamics Observatory, poco prima che una violenta eruzione di materia esploda dalla fotosfera della nostra stella nello spazio, con un’energia equivalente a decine di milioni di bombe atomiche.

Il brillamento solare registrato durante gli scorsi 29 e 30 aprile, si mostra di un colore più scuro per via di una piccola differenza di temperatura rispetto al materiale circostante sotto le luci dell’estremo ultravioletto. Il plasma sospeso subisce il tira e molla delle forze magnetiche fino a quando l’equilibrio precario si rompe e avviene una consistente fuga di materiale.

Questo tipo di attività è abbastanza comune sul Sole, ma siamo in grado di visualizzarla a questo livello di dettaglio solo da quando il Solar Dynamics Observatory è in funzione. L’immagine è stata scattata alle 22:20 ora italiana del 29 aprile.

“Man muss noch Chaos in sich haben, um einen tanzenden Stern gebären zu können”, sentenzierebbe a ragione il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, che nel prologo del celebre Così parlò Zarathustra affermava: bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante.

Guarda il timelapse realizzato con gli scatti del NASA Solar Dynamics Observatory.

Fonte: Media INAF | Scritto da Davide Coero Borga


Com’è dura la vita là fuori

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FAQ12

In infografica: una violenta eruzione di materia che esplode dalla fotosfera di una stella e il suo incontro con il campo magnetico di un pianeta. Il brillamento solare, o flare, scatena un’energia equivalente a varie decine di milioni di bombe atomiche.

Grazie alla sua discreta distanza dal Sole (da un minimo di 147 a un massimo di 152 milioni di chilometri circa) e a un robusto campo magnetico, la Terra è protetta da brillamenti e intemperie spaziali. Condizioni necessarie per trovare la vita anche su pianeti esterni al nostro Sistema. Così la vita nell’Universo potrebbe essere ancora più rara di quanto abbiamo mai pensato. E se astronomi e ricercatori a caccia di mondi potenzialmente abitabili hanno da tempo rivolto la loro attenzione ai sistemi stellari di nane rosse, per via della loro abbondante presenza nello spazio che ci circonda (si stima che corrispondano a una percentuale dell’80% delle stelle presenti nell’Universo conosciuto), nuovi studi mandano in frantumi le speranze di trovare presto gemelli della Terra capaci di ospitare la vita per come la conosciamo.

Una nana rossa è probabilmente in grado di spazzare via l’atmosfera di un qualsiasi pianeta che orbiti in quella fascia che gli astrofisici considerano abitabile all’interno di un Sistema stellare. Tempo (meteorologico) tiranno, è il caso di dire. “Un Sistema di nane rosse sottopone i pianeti che ne fanno parte a un ambiente spaziale estremo, senza parlare di stress fortissimi come il blocco dei fenomeni mareali”, ha spiegato Ofer Cohen, ricercatore dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics (CfA), durante la conferenza stampa organizzata dall’American Astronomical Society per discutere del problema.

La vita è dura nello spazio profondo e per sopravvivere torna buono un campo magnetico strutturato come quello che abbiamo sulla Terra, una sorta di scudo spaziale in stile Enterprise capace di deviare le esplosioni di energia in arrivo e trasformarle nello spettacolo visivo che conosciamo come aurora polare. Se a questo aggiungiamo la buona distanza che ci separa dal nostro gigante di fuoco: il gioco è fatto. Ma una nana rossa è più piccola e più fredda del Sole cui siamo abituati: un pianeta che voglia frequentare la zona abitabile di una stella del genere deve, di conseguenza, viaggiare molto più vicino alla sua stella garantendo temperature accettabili per avere acqua allo stato liquido. Un’orbita funestata da una situazione meteorologica da apocalisse.

L'incontro fra le particelle cariche del vento solare e la ionosfera terrestre dà origine al fenomeno delle aurore polari. Uno spettacolo che potrebbe allargarsi fino al 45° parallelo su un pianeta in orbita attorno a una nana rossa.

L’incontro fra le particelle cariche del vento solare e la ionosfera terrestre dà origine al fenomeno delle aurore polari. Uno spettacolo che potrebbe allargarsi fino al 45° parallelo su un pianeta in orbita attorno a una nana rossa.

Cohen e colleghi hanno esaminato l’impatto dei brillamenti di una stella di questa classe sui pianeti vicini e calcolato gli effetti della costante azione del vento solare, servendosi di un modello computerizzato sviluppato dall’Università del Michigan per rappresentare tre pianeti in orbita attorno a una nana rossa. I risultati sono poco confortanti: anche con un campo magnetico simile a quello terrestre un pianeta così vicino alla sua stella non è in grado di proteggere un piccolo fazzoletto di terra dal bombardamento continuo dei flare. “Le conseguenze che possiamo trarre dallo studio è che qualsiasi pianeta potenzialmente abitabile non può che vedere la sua atmosfera andare in briciole nel tempo”, taglia corto Jeremy Drake, co-autore dello studio e ricercatore del CfA.

Magra consolazione: lo spettacolo irripetibile delle aurore polari. Su un pianeta in orbita attorno a una nana rossa potrebbero essere 100.000 volte più forti di quelle che possiamo vedere qui, sulla Terra. Con un’estensione che dai poli potrebbe arrivare a lambire le Alpi. Se la Terra viaggiasse nella fascia di abitabilità di una nana rossa la gente in Pianura Padana potrebbe assistere alla magia dell’aurora boreale ogni sera. “D’altra parte – conclude Cohen – l’umanità sarebbe torturata dagli uragani causati dal grande sbalzo di temperatura fra giorno e notte. Nemmeno la pellaccia dura dei cittadini del New England è abbastanza per questo genere di esperienza devastante”.

 

Fonte: Media INAF | Scritto da Davide Coero Borga

Sole a catinelle

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Il mosaico di immagini ottenute con SST rivela una cascata di pioggia coronale (indicata dalla freccia) riversantesi nella macchia solare sulla superficie del Sole. La Terra viene riportata come riferimento dimensionale. Crediti: E. Scullion/SST

Il mosaico di immagini ottenute con SST rivela una cascata di pioggia coronale (indicata dalla freccia) riversantesi nella macchia solare sulla superficie del Sole. La Terra viene riportata come riferimento dimensionale. Crediti: E. Scullion/SST

Strano a dirsi, ma uno dei misteri irrisolti del Sole riguarda le piogge, in particolare le piogge coronali. Si tratta di enormi rovesci occasionali, costituiti da plasma incandescente che precipita a 200.000 km/h dalla corona – la parte più esterna dell’atmosfera solare – verso la superficie della stella. Uno scroscio dirompente costituito da migliaia di “gocce”, ciascuna grande quanto l’Irlanda. Il paragone geografico non è casuale perché proprio dall’Irlanda arriva uno studio che cerca di mettere insieme i pezzi di questo particolare fenomeno e di darne una spiegazione complessiva. Lo studio è stato condotto da Eamon Scullion del Trinity College Dublin, e presentato in questi giorni al National Astronomy Meeting organizzato a Portsmouth dalla Royal Astronomical Society britannica.

Scoperte quasi quarant’anni fa, le piogge coronali sono state indagate dai fisici solari negli ultimi anni in grande dettaglio grazie a strumenti avanzati, come il satellite della NASA Solar Dynamics Observatory (SDO), o lo Swedish 1-m Solar Telescope (SST) sull’isola di La Palma, alle Canarie. Ne è emerso che il processo attraverso cui si genera questa pioggia calda sul Sole è sorprendentemente simile al formarsi delle precipitazioni terrestri. Se le condizioni nell’atmosfera solare sono giuste, allora nuvole di plasma denso e caldo possono raffreddarsi, condensarsi e infine ricadere sulla superficie come “goccioloni” di pioggia. Ma come si formano le nubi? Attraverso un processo di evaporazione, come nell’analogo terrestre. In questo caso l’evaporazione è causata dalle più potenti esplosioni rintracciabili nel Sistema Solare, i cosiddetti flare, o brillamenti.

“L’energia rilasciata anche dal più debole brillamento è fenomenale”, ha spiegato Scullion. “Una parte del plasma sparato fuori da queste esplosioni finisce nello spazio, in quelle che vengono chiamate le espulsioni di massa coronale, mentre un’altra parte ricade sulla superficie, riscaldandola e provocandone l’evaporazione, proprio come l’acqua evapora dagli oceani sulla Terra. Infine si condensa nuovamente in ‘gocce’ una volta che diviene denso a sufficienza”. Il materiale solare coinvolto in questa evaporazione e condensazione si dispone lungo degli anelli di campo magnetico, disegnando come delle arcate.

Scullion e colleghi hanno potuto osservare nel giugno 2012 con il telescopio SST un violentissimo nubifragio solare, una vera e propria cascata di materiale solare che dalla corona si riversava furiosamente dentro una macchia solare sulla superficie del Sole. I ricercatori hanno potuto verificare che le arcate di plasma sono percorse da piogge più fredde, attorno ai 7.000 gradi, e piogge più calde, fino a 80.000 gradi Celsius, avviluppate in un cosiddetto raffreddamento catastrofico. “Lungo queste arcate abbiamo piogge calde e fredde che interagiscono fra di loro”, ha spiegato ancora Scullion. “Grazie a SDO siamo riusciti a ricavare il tasso di condensazione, trovando che questo processo è moto più rapido di quanto pensassimo. Quello che succede è un ‘raffreddamento catastrofico’, un processo fisico che genera le dense piogge fredde che vediamo cadere sulla superficie solare”.

Le piogge torrenziali scatenate dai brillamenti possono giocare un ruolo fondamentale nel controllare la circolazione della massa atmosferica solare, agendo come una sorta di termostato su vasta scala per regolare le fluttuazioni di temperatura nella corona. “Possiamo immaginare l’atmosfera esterna del Sole come un gigantesco bollitore e la pioggia coronale come un meccanismo per evitare che diventi troppo caldo. Una specie di termostato per la corona”, ha concluso Scullion.

Video costruito con una serie di osservazioni in alta risoluzione prese al Swedish 1-m Solar Telescope (SST) in un periodo di 1 ora e 10 minuti. Circa a metà del filmato s’intravede, in alto a sinistra, parte di un brillamento di classe C, seguito da un flusso scuro irregolare, la pioggia coronale, che precipita sul Sole (verso: da basso-destra a sinistra-alto). Crediti: E. Scullion / SST

 

 

 

Fonte: Media INAF | Scritto da Stefano Parisini

È per guardarti meglio

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Il brillamento solare che si è verificato sul lato opposto della nostra stella il 4 giugno 2011 ha emesso una quantità di neutroni insufficiente a raggiungere la magnetosfera terrestre. La sonda NASA Messenger, in orbita su Mercurio, ha però registrato l'evento offrendo una nuova tecnica per studiare il fenomeno delle gigantesche esplosioni solari. Crediti: NASA.

Il brillamento solare che si è verificato sul lato opposto della nostra stella il 4 giugno 2011 ha emesso una quantità di neutroni insufficiente a raggiungere la magnetosfera terrestre. La sonda NASA Messenger, in orbita su Mercurio, ha però registrato l’evento offrendo una nuova tecnica per studiare il fenomeno delle gigantesche esplosioni solari. Crediti: NASA.

È un sottile groviglio di fili intrecciati, il getto di plasma che danza nello spazio della corona solare durante il fenomeno dell’eruzione solare. La materia esplode dalla fotosfera della nostra stella nello spazio, con un’energia equivalente a decine di milioni di bombe atomiche. Studiare il fenomeno da Terra, il nostro primo punto di vista sull’Universo, non è cosa semplice.

E cosa si può fare per comprendere meglio i flare solari se possiamo fare affidamento esclusivamente sull’osservazione della radiazione e delle particelle originate dalla nostra stella che incontrano la magnetosfera terrestre? Possiamo avvicinarci e guardare il Sole da presso. La sonda NASA Messenger, in orbita su Mercurio e a 45 milioni di chilometri dal Sole (un bel salto in avanti rispetto alla Terra che si ferma alla soglia dei 149 milioni di chilometri), è vicina quanto basta per registrare l’emissione di neutroni durante il fenomeno dei brillamenti solari.

Ogni neutrone creato durante un flare ha una ‘aspettativa di vita’ mediamente di appena 15 minuti. La distanza che può percorrere nello spazio dipende anzitutto dalla sua velocità. Per questo motivo i neutroni più lenti non riescono a fare tanta strada da essere registrati dai rilevatori di particelle in orbita attorno alla Terra. Messenger ci vede più chiaro, insomma, e a dimostrarlo è uno studio appena pubblicato sulle colonne del Journal of Geophysical Research: Space Physics.

“Per comprendere meglio tutti i fenomeni che interessano la nostra stella da tempo monitoriamo i diversi tipi di emissioni solari, siano essi fotoni, elettroni, protoni, neutroni o raggi gamma, ricavando diversi tipi di informazione”, spiega David Lawrence, primo autore dello studio e in forza al Johns Hopkins Applied Physics Lab di Laurel, nel Maryland. “Da Terra possiamo sì osservare il flusso di particelle cariche provenienti dal Sole, in una qualche misura però influenzato dallo scontro fra campi magnetici differenti”.

Le particelle attraversano lo spazio seguendo le linee di un campo magnetico in costante movimento fra Sole e Terra. I neutroni sono gli unici a non subire gli effetti delle variazioni di campo o dell’urto con la magnetosfera terrestre, seguendo un percorso in linea retta. I neutroni sono quindi un ottimo strumento per misurare quei processi di ‘accelerazione’ in cui hanno origine particelle cariche e molto veloci.

Lawrence e il suo team hanno esaminato i dati raccolti dal Messenger il 4 e 5 giugno 2011 e corrispondenti a un’eruzione solare che ha generato un potente getto di particelle dello spazio. Il brillamento si è verificato sul lato opposto del Sole rispetto alla Terra, il che ha impedito di raccogliere dati dal nostro Pianeta, ma non al Solar Terrestrial Relations Observatory NASA (STEREO), la coppia di sonde spaziali che osservano 24 ore su 24 la nostra stella, in posizione più favorevole, di registrare l’evento. L’uso combinato dei dati provenienti dalle diverse missioni ci offre nuove prospettive e diventa uno strumento efficace per affrontare questioni scientifiche irrisolte.

Anche Messenger si trovava incidentalmente in una posizione favorevole e i dati raccolti dai suoi strumenti mostrano un aumento del numero di neutroni nell’orbita di Mercurio ore prima che l’onda di particelle cariche raggiungesse la sonda. Fatto che indica come i neutroni siano stati prodotti dagli urti ad alta energia delle particelle accelerate dal flare con gli strati inferiori dell’atmosfera solare. Dall’incrocio dei dati di Messenger e STEREO forse può davvero arrivare una risposta a come le particelle vengano accelerate nei brillamenti solari.

Fonte: Media INAF | Scritto da Davide Coero Borga

Vampate di calore… sul Sole

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Un’immagine d’archivio della missione EUNIS sulla rampa di lancio. Crediti: U.S. Navy

Un’immagine d’archivio della missione EUNIS sulla rampa di lancio. Crediti: U.S. Navy

E’ durato pressappoco un quarto d’ora il volo del razzo che il 23 aprile 2013 ha innalzato lo strumento EUNIS a più di 300 km sopra il poligono del White Sands Missile Range, in New Mexico. Non disturbato dall’atmosfera terrestre, EUNIS, che sta per Extreme Ultraviolet Normal Incidence Spectrograph, ha così potuto scandagliare a fondo una zona predeterminata sul Sole – una regione nota per essere “attiva”, cioè magneticamente complessa – per sei interi minuti. Un tempo infimo rispetto alle osservazioni continue dei satelliti, ma sufficiente a dipanare uno degli enigmi che ancora infiammano le discussioni degli scienziati: il riscaldamento della corona, la parte più alta dell’atmosfera solare, che possiede una temperatura  tra 1 e 3 milioni di gradi Kelvin, 300 volte più alta rispetto alla superficie. Secondo uno studio pubblicato su The Astrophysical Journal, infatti, grazie all’altissima risoluzione dei dati ottenuti da EUNIS si è potuta trovare la migliore prova a favore di una delle varie teorie sviluppate per spiegare il surriscaldamento della corona solare, i nanobrillamenti (nanoflares), la cui esistenza fu ipotizzata esattamente 50 anni fa. Secondo questa teoria, eventi di riconnessione magnetica darebbero origine a una miriade di piccolissimi brillamenti, degli “schiocchi di frusta” che riscaldano il plasma fino a 10 milioni di gradi Kelvin, per poi raffreddarsi molto rapidamente, contribuendo così a innalzare la temperatura del materiale coronale.

Negli spettri ottenuti da EUNIS, come nell’esempio mostrato, compaiono delle righe di emissione da cui si può dedurre quali elementi sono presenti nell’atmosfera del Sole e a quale temperatura. Crediti: NASA / EUNIS

Negli spettri ottenuti da EUNIS, come nell’esempio mostrato, compaiono delle righe di emissione da cui si può dedurre quali elementi sono presenti nell’atmosfera del Sole e a quale temperatura. Crediti: NASA / EUNIS

EUNIS è stato sintonizzato proprio per individuare una lunghezza d’onda della luce corrispondente a plasma caldo 10 milioni di gradi. Analizzando a fondo i sei minuti di osservazione, gli scienziati hanno riscontrato che lo spettrografo è stato in grado di distinguere in modo chiaro e inequivocabile le cosiddette “righe di emissione” corrispondenti al materiale estremamente caldo che andavano cercando. Secondo Jeff Brosius, scienziato spaziale alla Catholic University a Washington, D.C., e al Goddard Space Flight Center della NASA, primo firmatario del nuovo studio, l’individuazione di questa riga di emissione debole è stato il trionfo della risoluzione di EUNIS.

«Il fatto che siamo stati in grado di risolvere questa linea di emissione così chiaramente rispetto a quelle vicine è ciò che a spettroscopisti come me fa stare sveglio la notte per l’eccitazione», ha detto Brosius. «Questa debole linea osservata per una così vasta frazione di una regione attiva ci dà realmente la prova più forte mai ottenuta della presenza di nanobrillamenti».

Sono state proposte altre spiegazioni per il meccanismo all’origine del surriscaldamento della corona, ipotesi su cui si continuerà a indagare con sempre migliori strumenti. Tuttavia, nessun’altra teoria prevede l’esistenza di materiale a questa altissima temperatura nella corona: un deciso punto a favore della teoria dei nanobrillamenti. “Questa è una vera e propria pistola fumante per i nanobrillamenti”, ha infatti entusiasticamente affermato Adrian Daw, l’attuale ricercatore principale per EUNIS al Goddard. “E dimostra anche che questi piccoli ed economici razzi sonda sono davvero in grado di produrre scienza robusta”.

Guarda il video (in inglese) NASA/EUNIS Sees Evidence for Nanoflare Coronal Heating

Per saperne di più:

  • Jeffrey W. Brosius, Adrian N. Daw, D. M. Rabin. PERVASIVE FAINT Fe XIX EMISSION FROM A SOLAR ACTIVE REGION OBSERVED WITH EUNIS-13: EVIDENCE FOR NANOFLARE HEATING. The Astrophysical Journal, 2014; 790 (2): 112 DOI: 10.1088/0004-637X/790/2/112

Fonte: Media INAF | Scritto da Stefano Parisini

Un brillamento solare in versione HD

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Crediti: NASA/Goddard/SDO

Crediti: NASA/Goddard/SDO

60 mila gradi Kelvin: è questa la temperatura che ha raggiunto il materiale solare nella bassa atmosfera durante brillamento del 10 settembre scorso ripreso da diversi strumenti, tra cui IRIS (Interface Region Imaging Spectrograph), il gioiellino della NASA che si occupa di sservare come il plasma si muove, raccoglie energia e si riscalda mentre viaggia attraverso la bassa atmosfera del Sole. Il flare X1.6 appartiene alla classe X, la più potente (le classi sono A, B, C, M e X, in ordine crescente). I numeri ci danno qualche informazione in più rispetto alla sua potenza: ad esempio un flare X2 è due volte più intenso rispetto a un X1. Un altro brillamento era già stato registrato da SDO il giorno prima.

I brillamenti solari sono potenti emissioni che potrebbero essere nocivi per l’uomo se non fossimo difesi dal campo magnetico terrestre. Tuttavia – se abbastanza intensi – possono disturbare il segnale dei satelliti che si trovano nell’orbita geostazionaria, quella dedicata alle comunicazioni. Di recente la NASA ha diffuso un video in cui si vedono in combinato le immagini riprese da IRIS e quelle di SDO (Solar Dynamics Observatory): quelle sulla sinistra si concentrano sulla cromosfera, mentre le altre mostrano una regione più calda e leggermente superiore, la corona. Il materiale ripreso da SDO arriva a 600 mila gradi Kelvin.

IRIS mostra chiaramente una macchia solare in alto a destra. SDO ci fa vedere invece ciò che sta accadendo al di sopra: spire magnetiche giganti che “ballano” sulla superficie solare. Al momento del brillamento (al secondo 0:10 del video) si vedono linee molto luminose e nitide sia nell’immagine di IRIS che in quella di SDO e ci si può rendere conto quindi di cosa stia succedendo a temperature più basse nella cromosfera rispetto a ciò che accade negli strati più alti dell’atmosfera solare.

Catturare questi brillamenti non è semplice, perché orientare IRIS sulle sezioni da osservare deve essere fatto almeno un giorno prima dell’evento. Ci vuole un po’ di fortuna, ma finora IRIS ha avvistato ben due flare di classe X e numerosi altri di classe M.

Crediti: NASA/SDO

Crediti: NASA/SDO

Per saperne di più:

  • Clicca QUI per la missione IRIS
  • Clicca QUI per scaricare il video in HD

Fonte: Media INAF | Scritto da Eleonora Ferroni

Mini stella, maxi flare

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DG CVn, un sistema binario costituito da due nane rosse, ha scatenato una serie di potenti flare nello spazio circostante e catturati dal satellite NASA Swift. Crediti: NASA Goddard Space Flight Center / S. Wiessinger.

DG CVn, un sistema binario costituito da due nane rosse, ha scatenato una serie di potenti flare nello spazio circostante e catturati dal satellite NASA Swift. Crediti: NASA Goddard Space Flight Center / S. Wiessinger.

«Ci hanno abituati a pensare che gli episodi di flaring dalle nane rosse fossero l’evento di un giorno, al più. Ora SWIFT ci presenta l’eccezione alla regola: sette potenti eruzioni in un periodo di due settimane». C’è grosso stupore nella voce di Stephen Drake, astrofisico in forza al NASA Goddard Space Flight Center di Greenbelt, Maryland.

Lo scorso 23 aprile, il satellite NASA SWIFT ha rilevato la più forte, calda e duratura sequenza di brillamenti stellari mai prodotti da una nana rossa così vicino al nostro sistema: l’esplosione che ha dato inizio alla serie di brillamenti stellari è stata 10.000 volte più potente della più grande delle eruzioni solari fin qui registrate. Merito anche della sua giovane età e un brevissimo periodo di rotazione che ha contribuito ad amplificare il fenomeno.

Il superflare – al suo picco, l’eruzione ha raggiunto la temperatura di 200 milioni di gradi Celsius, dodici volte più calda del cuore della nostra stella, il Sole – proviene da una delle due stelle che costituiscono il sistema binario conosciuto come DG Canum Venaticorum (DG CVn) situato a circa 60 anni luce dal Sistema Solare. Entrambe le stelle hanno massa e dimensioni pari a un terzo del Sole e ruotano a una distanza pari a tre volte la distanza fra la Terra e la sua stella. Troppo vicine perché SWIFT possa determinare quale delle due è stata interessata dal fenomeno dei flare.

«Un sistema poco studiato e che non era nella nostra lista di priorità», ammette Rachel Osten, astronomo dello Space Telescope Space Institute di Baltimora e che sta lavorando al progetto del NASA James Webb Space Telescope. «Non avevamo idea che DG CVn potesse riservarci simili sorprese».

Come una stella così piccina possa produrre flare di questa intensità è presto detto. La maggior parte delle stelle che si possono trovare in un raggio di 100 anni luce dal Sistema Solare sono, proprio come la nostra stella, già piuttosto ‘mature’. Non DG CVn, la cui età è stimata sui 30 milioni di anni – una ragazzina se confrontata al nostro Sole. A questo fattore si aggiunge poi una velocità di rotazione elevata, capace di favorire il fenomeno dei flare.

Anche il Sole nella sua giovinezza, quando il suo spin era di molto maggiore, probabilmente ha dato vita a giganteschi flare. Fortunatamente per noi oggi non sembra più in grado di farlo.

Astronomi e ricercatori a caccia di mondi potenzialmente abitabili hanno da tempo rivolto la loro attenzione ai sistemi stellari di nane rosse (vedi MediaINAF), per via della loro abbondante presenza nello spazio che ci circonda (l’80% delle stelle presenti nell’Universo, secondo una stima recente).

La speranza di trovare presto gemelli della Terra capaci di ospitare la vita per come la conosciamo è fortemente compromessa da fenomeni come quello registrato da SWIFT: grazie alla sua discreta distanza dal Sole e un robusto campo magnetico, la Terra è protetta da brillamenti e intemperie spaziali; condizioni necessarie per trovare la vita anche su pianeti esterni al nostro Sistema.

Una nana rossa è probabilmente in grado di spazzare via l’atmosfera di un qualsiasi pianeta che orbiti in quella fascia che gli astrofisici considerano abitabile (vedi MediaINAF) all’interno di un Sistema stellare. Le nane rosse sono più piccole e fredde del Sole: un pianeta che voglia frequentare la zona abitabile di una stella del genere deve, di conseguenza, viaggiare molto più vicino alla sua stella per garantire temperature accettabili e avere acqua allo stato liquido. Troppo vicino perché l’atmosfera possa sopravvivere ai duri colpi dei flare solari. «Se ti trovi su un pianeta che orbita attorno a una nana rossa quando si verifica un evento straordinario come quello registrato da SWIFT, beh, la tua giornata sta prendendo una brutta piega», è il commento caustico di Rachel Osten. Difficile darle torto.

Fonte: Media INAF | Scritto da Davide Coero Borga

Immagine di brillamento solare

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midflareUn significativo brillamento solare, con un picco alle 18.22 italiane quello registrato lo scorso 11 marzo dal Solar Dynamics Observatory della NASA e del quale vi proponiamo questa immagine.

Come è noto i brillamenti solari sono potenti esplosioni di radiazioni che però non sono in grado di superare l’atmosfera terrestre grazie al campo magnetico che protegge il nostro pianeta, ma, quando è troppo intenso, possono disturbare i satelliti di telecomunicazioni che orbitano al di fuori dell’atmosfera.

Il brillamento registrato è stato classificato come un flare X2.2 classe, cioè appartenente alla classe X, quella dei brillamenti più intensi, dove il 2 è due volte più intenso di 1, e 3 tre vole più intenso etc…

Fonte: Media INAF | Scritto da Redazione Media Inaf


Mira ha un flare per Alma

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Rappresentazione artictica del flare emesso dalla gigante rossa MIRA A. Crediti Katja Lindblom, CC BY-NC-ND 4.0

Rappresentazione artictica del flare emesso dalla gigante rossa MIRA A. Crediti Katja Lindblom, CC BY-NC-ND 4.0

Una gigantesca fiammata sulla superficie di Mira, una delle giganti rosse più vicine a noi, e tra le più famose del cielo. E’ quella osservata grazie al telescopio Alma dell’ESO. Attività come queste, simile a quelle che possiamo osservare sul nostro Sole, nelle giganti rosse rappresentano una sorpresa per gli astronomi. La scoperta potrebbe però aiutare a spiegare come i venti di stelle giganti contribuiscano all’ecosistema della nostra galassia.

Grazie alla sua “vista” acuta, il telescopio Alma ha permesso una dettagliata osservazione delle stelle Mira A e Mira B, permettendo di ottenere dettagli della superficie di Mira A.

«La vista di Alma è così acuta che possiamo cominciare a vedere i dettagli sulla superficie della stella. Parte della superficie stellare non è solo estremamente brillante ma varia anche per luminosità»,dice Wouter Vlemmings, astronomo presso la Chalmers University of Technology, che ha guidato il team della ricerca e i cui risultati sono stati recentemente pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Giganti rosse come Mira A sono componenti essenziali dell’ecosistema della nostra galassia. Mentre si avvicinano alla fine della loro esistenza perdono i loro strati esterni sotto forma di venti. Questi venti trasportano elementi pesanti nello spazio dove si possono formare nuove stelle e pianeti. La maggior parte del carbonio, ossigeno e azoto nel nostro corpo è stato formato in stelle e ridistribuite dai venti.

Mira è nota da secoli come una delle più famose stelle variabili nel cielo e si trova a 420 anni luce nella costellazione Cetus. Si tratta di un sistema binario, costituito da due stelle di circa la stessa massa del Sole: la prima è una densa, calda, nana bianca mentre la sua compagna è una fresca, gigante rossa, che orbitano tra loro a una distanza come a quella media tra Plutone e il Sole

«Mira è un sistema a chiave per capire come le stelle come il nostro sole raggiungono la fine della loro vita e che differenza fa per una stella anziana avere una compagna vicino», dice Sofia Ramstedt, astronoma presso l’Università di Uppsala e co-autore della ricerca.

Il Sole, la nostra stella più vicina, mostra attività alimentato da campi magnetici, e questa attività, a volte sotto forma di tempeste solari, spinge le particelle che compongono il vento solare che a sua volta può creare aurore sulla Terra.

«Vedere un flare su Mira A suggerisce che i campi magnetici svolgono un ruolo nei venti prodotti dalle giganti rosse», continua Wouter Vlemmings che conclude: «Alma ci ha mostrato, per la prima volta, i dettagli della superficie di Mira. Ora possiamo iniziare a scoprire le giganti rosse più vicine a noi osservandole in un dettaglio impossibile in precedenza».

Fonte: Media INAF | Scritto da Francesco Rea

Prevedere le tempeste solari

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newseventsimagesLe espulsioni di massa coronale (Coronal Mass Ejection, CME) sono eruzioni di plasma solare che possono potenzialmente compromettere le comunicazioni satellitari e le tecnologie terrestri perturbando trasmissioni radio, provocando esplosioni ai trasformatori e blackout.

Queste emissioni di materia possono causare problemi alla tecnologia GPS, utilizzata quotidianamente da molti tipi di veicoli, dalle automobili alle petroliere fino ai trattori. Possono ad esempio danneggiare la capacità dei sistemi a bordo di un aereo impedendogli di calcolare con precisione la distanza da terra per l’atterraggio, arrivando ad impedire agli aerei di atterrare fino a tempi di un’ora.

Tuttavia, non tutte le emissioni di materia solare provocano così tanti disagi. L’intensità del materiale che arriva sulla Terra dipende dall’orientamento dei campi magnetici nel punto in cui parte il flusso di plasma. Attualmente i satelliti sono in grado di valutare con precisione l’orientamento del campo magnetico di un’espulsione di materia solo quando questa si trova vicina alla Terra, arrivando a un massimo di 30-60 minuti di preavviso. Questo lasso di tempo non è sufficiente per limitare gli impatti sulle reti di distribuzione di energie e sui sistemi che utilizzano i segnali GPS.

Ora abbiamo un nuovo strumento di misurazione e modellizzazione che potrebbe prevedere le espulsioni di materiale solare potenzialmente dannosi per la Terra con oltre 24 ore di anticipo. I dettagli della tecnica, sviluppata da un team guidato dal dottor Neel Savani, ex-alunno e Visiting Researcher presso l’Imperial College di Londra nonché scienziato presso il Goddard Space Flight Center della NASA, sono stati pubblicati oggi in un articolo su Space Weather.

«Più ci leghiamo alla tecnologia, più l’interruzione di segnale dovuta ad eventi meteorologici spaziali di grandi dimensioni influisce sulla nostra vita quotidiana”, ha detto il dottor Savani. «Superare la barriera delle 24 ore di preavviso è fondamentale per affrontare in modo efficace i problemi prima che questi si verifichino”.

L’orientamento del campo magnetico all’interno dei flussi di plasma dipende da due fattori: la sua forma iniziale nel momento in cui il materiale viene emesso dal Sole, e la sua evoluzione mentre viaggia verso la Terra. Le CME provengono in genere da due punti sulla superficie del Sole, e formano una nube di plasma a forma di brioche tra questi due punti.

Questa nube contiene a sua volta linee di campo magnetico intrecciate tra loro, che cambiano forma mentre si muovono nello spazio. Se una di queste linee di campo incontra il campo magnetico terrestre con un orientamento favorevole, i due campi si collegheranno aprendo un canale che permetterà al plasma di entrare e causare una tempesta geomagnetica.

Fino ad ora le previsioni sfruttavano dati riguardanti la CME in partenza dal Sole, ma non erano efficaci nel modellizzare ciò che succedeva alla forma della nube durante il suo viaggio verso la Terra. Con la nuova tecnica si osserva più da vicino le regioni di produzione dell’espulsione di massa e ci si avvale di una serie di osservatori per monitorare e modellare l’evoluzione della nube.

Il Dr Savani e i suoi colleghi hanno testato il modello in otto CME, con risultati molto promettenti nell’ottica di migliorare il sistema attuale di previsione delle tempeste geomagnetiche. Se gli ulteriori test programmati dalla NASA confermeranno questi primi risultati, il sistema potrebbe essere utilizzato prossimamente dalla NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) negli Stati Uniti e il Met Office nel Regno Unito.

«Una eiezione di massa dalla corona diretta verso la Terra interagisce al suo arrivo con il campo magnetico terrestre, che si oppone al moto delle particelle di plasma della nube solare e ne assorbe una parte di energia, subendo una perturbazione (tempesta geomagnetica) » ha dichiarato Mauro Masserotti dell’INAFOsservatorio Astronomico di Trieste . «Se, però, l’orientazione del campo magnetico trasportato dalla nube di plasma è opposta a quella del campo magnetico terrestre, l’effetto è molto più intenso, perché nella zona del contatto il primo si riconnette con il secondo ed in quel punto le particelle elettricamente cariche della CME possono penetrare lo scudo magnetico, venire immagazzinate nella coda della magnetosfera e poi incanalate verso i poli magnetici del nostro pianeta. Questo determina una perturbazione magnetica molto intensa con aurore polari e generazione di intense correnti elettriche in ionosfera, che inducono correnti elettriche (correnti geomagneticamente indotte, GIC) nei lunghi conduttori a Terra (elettrodotti ed oleodotti) e possono dar origine ad interruzioni anche prolungate nell’erogazione della corrente elettrica nelle regioni interessate dal fenomeno, a causa del danneggiamento dei trasformatori di alta tensione».

«La penetrazione di particelle solari nelle regioni polari», prosegue Masserotti «determina inoltre un’interruzione nelle comunicazioni radio ad onde corte, perturbazioni al funzionamento dei GPS ed aumento del livello di radiazioni ionizzanti, che interessano tutti i voli aerei in rotte polari riducendone il livello di sicurezza sia dal punto di vista della navigazione che della fisiologia di equipaggi e passeggeri. Ecco perché la previsione della polarità magnetica di una CME con sufficiente anticipo garantisce la possibilità di mettere in atto una serie di azioni di mitigazione degli effetti, come, ad esempio, una diversa pianificazione dei voli in rotte polari. La metodica proposta, basata sull’analisi sia della zona di formazione della CME sul Sole che della sua evoluzione nel corso della propagazione, è molto promettente, ma richiede una puntuale verifica su un numero sufficiente di casi osservati».

Fonte: Media INAF | Scritto da Elisa Nichelli

Le abitudini alimentari dei buchi neri

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Grazie all’analisi dei dati dell’archivio della Sloan Digital Sky Survey (SDSS), e dei telescopi spaziali XMM-Newton and Chandra, un gruppo di astronomi ha scoperto un gigantesco buco nero che sta probabilmente distruggendo e divorando una stella di grande massa che si trova nelle sue vicinanze. Con una massa pari a 100 milioni di volte quella del Sole, si tratta fino ad oggi del più grande buco nero colto in flagrante. I risultati di questo studio sono pubblicati su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Il grafico mostra due spettri SDSS dell’oggetto in questione. Si notano bene le diverse luminosità in funzione della lunghezza d’onda tra le due epoche. In particolare, le righe rosse si riferiscono alle righe di Balmer dell’idrogeno che cambiano nettamente la loro forma: nello spettro rosso esse sono molto più larghe e forniscono una sorta di “impronta” del processo di accrescimento attorno al buco nero. Credit: SDSS/MPE.

Andrea Merloni del Max-Planck Institute for Extraterrestrial Physics (MPE), autore principale dello studio, e i membri del suo gruppo hanno esplorato l’enorme archivio di dati della SDSS in vista di una futura missione satellitare in banda X. La survey SDSS ha osservato un’ampia frazione del cielo con il suo telescopio ottico prendendo una serie di spettri di galassie e buchi neri distanti. Per una serie di motivi, gli scienziati hanno ottenuto gli spettri di alcuni oggetti più volte. Ora, nel momento in cui il gruppo stava analizzando uno degli oggetti ripreso con spettri multipli, noto con la sigla SDSS J0159+0033, una galassia nella costellazione della Balena alla distanza di circa 3,5 miliardi di anni luce dalla Terra, i ricercatori rimasero colpiti da uno straordinario cambiamento.

«Di solito, le galassie distanti non mostrano variazioni significative nel corso della loro vita, cioè su tempi scala dell’ordine di anni o decine di anni», spiega Merloni. «Ma questa ha mostrato una variazione drammatica del suo spettro come se il suo buco nero si fosse acceso e spento». Ciò è accaduto tra il 1998 e il 2005 ma nessuno aveva notato lo strano comportamento fino allo scorso anno, quando due gruppi di ricercatori che stavano preparando la prossima (quarta) generazione delle survey SDSS si imbatterono indipendentemente nei dati.

Per fortuna, i due maggiori osservatori spaziali X, XMM-Newton dell’ESA e Chandra della NASA, osservarono la stessa area di cielo abbastanza vicina all’istante di tempo in cui si è avuto il flare e poi di nuovo circa dieci anni più tardi. Ciò ha permesso agli astronomi di avere un’informazione unica sull’emissione di alta energia che rivela come la materia viene processata nelle immediate vicinanze del buco nero centrale.

I buchi neri di grossa taglia risiedono nei nuclei delle galassie più grandi. Gli scienziati ritengono che la loro crescita ed evoluzione, che ha permesso di raggiungere le dimensioni attuali, è stata dovuta ai processi di accrescimento del gas interstellare che non può sfuggire alla loro immensa attrazione gravitazionale. Questo processo ha luogo nel corso di un tempo alquanto lungo (da 10 a 100 milioni di anni) ed è in grado di trasformare un buco nero di “piccola taglia”, creatosi a seguito dell’esplosione stellare di una stella massiccia, in un oggetto mostruoso supermassiccio che risiede nei nuclei delle galassie.

L’immagine raffigura un’istantanea relativa alla simulazione del processo di distruzione mareale di una stella da parte di un buco nero supermassiccio. I pennacchi color arancio mostrano i resti della stella dopo il suo passaggio vicino al buco nero (che si trova nella parte in basso a sinistra). I resti della stella distrutta si muovono su orbite ellittiche attorno al buco nero e formano un disco di accrescimento che alla fine emette radiazione nelle bande X e ottica. Credit: J. Guillochon (Harvard University) e E. Ramirez-Ruiz (University of California)

Sappiamo che le galasssie contengono un elevato numero di stelle ma alcune di esse, quelle più sfortunate, possono passare nelle vicinanze del buco nero centrale: qui esse vengono distrutte e alla fine “divorate” dal mostro. Se il buco nero è abbastanza compatto, le forti interazioni mareali fanno letteralmente a pezzi la stella in modo spettacolare. Ciò che rimane di essa continua a spiraleggiare attorno al buco nero e produce enormi brillamenti di radiazione (flare) che possono raggiungere una luminosità pari a quella di tutte le stelle della galassia ospite per un periodo di tempo che va da qualche mese a un anno. Questi eventi rari vengono chiamati TDF che sta per Tidal Disruption Flares.

Merloni e i suoi collaboratori pubblicarono immediatamente i loro dati affermando che il “loro” flare era quasi in perfetto accordo con le previsioni del modello. In più, data la natura casuale della scoperta, essi sottolinearono il fatto che si trattava di un sistema ancora più particolare di tutti quelli che erano stati trovati fino ad ora attraverso le ricerche attive. Con una massa stimata di 100 milioni di masse solari, stiamo avendo a che fare con il più grosso buco nero osservato nell’atto di distruzione di una stella.

Tuttavia, la dimensione del sistema in questione non è il solo aspetto intrigante di questo particolare flare ma è anche il primo per cui gli scienziati possono essere abbastanza certi che il buco nero sia rimasto di recente a “dieta di gas” (cioè alcune decine di migliaia di anni). Si tratta di un indizio importante che ci permette di comprendere di quale tipo di “cibo” si alimentano per lo più i buchi neri.

«Louis Pasteur diceva: ‘La fortuna favorisce una mente preparata’, ma nel nostro caso nessuno era davvero preparato», dice Merloni. «Avremmo potuto trovare questo oggetto unico già dieci anni fa ma gli astronomi non sapevano dove guardare. E’ alquanto comune in astronomia che il progresso verso la comprensione del cosmo viene spesso aiutato da scoperte casuali. Ora abbiamo un’idea migliore di come individuare altri eventi di questo tipo e gli strumenti futuri espanderanno notevolmente la nostra abilità di ricerca».

Tra meno di due anni, un nuovo potente telescopio per raggi X, eROSITA, attualmente in fase di costruzione al MPE, sarà messo in orbita sul satellite russo-tedesco SRG. Il telescopio osserverà l’intero cielo con una sensibilità adeguata per scoprire centinaia di eventi di distruzione mareale come nel suddetto caso. Grandi telescopi ottici stanno per essere concepiti e costruiti allo scopo di monitorare il “cielo variabile” e contribueranno enormemente alla soluzione del mistero di quelle che sono le abitudini alimentari dei buchi neri. Gli astronomi dovranno essere preparati per catturare questi eventi drammatici della vita di una stella ma anche quando essi saranno pronti, il cielo riserverà comunque nuove sorprese.

Questa simulazione della distruzione di una stella da parte di un buco nero illustra la formazione di un disco di accrescimento creato dal materiale stellare. La sequenza mostra una fase iniziale relativa alla formazione del disco. I falsi colori che individuano il materiale della stella sono mostrati in funzione della temperatura (il rosso indica temperature più basse e il porpora indica una temperatura più elevata). Credit: J. Guillochon and E. Ramirez Ruiz


MNRAS: A. Merloni et al. 2015 – A tidal disruption flare in a massive galaxy? Implications for the fuelling mechanisms of nuclear black holes

arXiv: A tidal disruption flare in a massive galaxy? Implications for the fuelling mechanisms of nuclear black holes

Fonte: Media INAF | Scritto da Corrado Ruscica

Un nuovo brillamento dal Sole

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Il Sole ripreso dall'osservatorio spaziale SDO della NASA durante il brillamento di classe M7.6, visibile in basso a destra del disco solare. L'immagine è stata presa con un filtro nella banda della radiazione ultravioletta. Crediti: NASA/SDO

Il Sole ripreso dall’osservatorio spaziale SDO della NASA durante il brillamento di classe M7.6, visibile in basso a destra del disco solare. L’immagine è stata presa con un filtro nella banda della radiazione ultravioletta.
Crediti: NASA/SDO

Alle 16:58 ora italiana di ieri, il Sole ha emesso un brillamento di media potenza, ripreso in questa immagine dall’osservatorio spaziale della NASA SDO, Solar Dynamics Observatory, che osserva costantemente l’attività della nostra stella. I brillamenti solari sono violente emissioni di radiazioni che, quando incontrano la Terra, vengono assorbite dalla sua atmosfera, che ne annulla così i potenziali effetti dannosi sugli esseri viventi. Tuttavia, i brillamenti di potenza medio-alta possono recare disturbi, ad esempio, alle comunicazioni satellitari e ai segnali GPS. E così è accaduto ieri sopra i cieli del Sud America e dell’Oceano Atlantico, dove sono stati registrati brevi black-out radio.

L’intensità nei raggi X del brillamento di ieri, emesso dalla regione attiva denominata AR2422, è stata classificata come M7.6, un valore elevato ma inferiore agli eventi più violenti, a cui viene attribuita la lettera X (che sta per Extreme, estremo).

Fonte: Media INAF | Scritto da Redazione Media Inaf

Nascita turbolenta per le macchie solari

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A sinistra: le osservazioni della sonda Hinode della JAXA mostrano lo sviluppo di una macchia solare. Una struttura brillante ed allungata, il 'light bridge', appare tra i due pori che si stanno fondenndo (le regioni più scure). A destra: la formazione di una macchia solare nella simulazione al computer realizzata dal team di Shin Toriumi. Crediti: NAOJ/JAXA/LMSAL/NASA

A sinistra: le osservazioni della sonda Hinode della JAXA mostrano lo sviluppo di una macchia solare. Una struttura brillante ed allungata, il ‘light bridge’, appare tra i due pori che si stanno fondenndo (le regioni più scure). A destra: la formazione di una macchia solare nella simulazione al computer realizzata dal team di Shin Toriumi. Crediti: NAOJ/JAXA/LMSAL/NASA

Quali sono i processi che portano alla formazione delle macchie solari e come si innescano i processi esplosivi ad esse legati, come ad esempio i brillamenti e le espulsioni di massa coronale? A queste domande prova a dare risposta il lavoro di Shin Toriumi, professore associato dell’Osservatorio Astronomico Nazionale del Giappone e dei suoi collaboratori, basato su dati raccolti dalle sonde spaziali Hinode, Solar Dynamics Observatory (SDO), Interface Region Imaging Spectrograph (IRIS) e integrati da sofisticate simulazioni che hanno coinvolto il supercomputer Pleiades della NASA. Lo studio, in pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal, mette in evidenza la stretta relazione tra il magnetismo presente nelle zone interne del Sole, la formazione delle macchie sulla sua superficie e i processi dinamici che si sviluppano nell’atmosfera solare.

L’enorme messe di dati scientifici estremamente accurati raccolti negli ultimi anni dalle missioni spaziali dedicate allo studio del Sole ci sta dando una visione sempre più chiara di come i campi magnetici, responsabili della formazione delle macchie solari e delle più violente manifestazioni della nostra stella, si propaghino dall’interno fino alle regioni più esterne del Sole. Inizialmente, i campi magnetici che emergono per formare una macchia sono concentrati in zone relativamente piccole. A volte, quando due ‘proto macchie’ (che prendono il nome di pori, pores in inglese) si avvicinano, convogliano del plasma debolmente magnetizzato, così da formare una struttura allungata chiamata light bridge. Durante il processo che porta alla fusione dei pori, i light bridge si dissolvono e si viene a creare la vera e propria macchia solare. Questo turbolento processo porta alla produzione di getti di plasma ed esplosioni. I ricercatori hanno seguito l’evoluzione di questi processi di formazione delle macchie con le riprese dei telescopi spaziali e hanno ricostruito in dettaglio le strutture magnetiche dei pori e dei light bridge, così come i meccanismi che determinano le esplosioni e le emissioni dei getti.

Le osservazioni ad alta risoluzione dei campi magnetici superficiali solari effettuate da Hinode hanno messo in evidenza che i pori, durante la loro fusione, possiedono intensi campi magnetici orientati in senso verticale, mentre i light bridge mostrano la presenza di campi più deboli e disposti orizzontalmente. I dati provenienti da IRIS sulle proprietà dell’atmosfera al di sopra dei light bridge indicano poi l’innesco di una serie di eventi esplosivi come conseguenza del fenomeno della riconnessione magnetica. Ciò significa che i campi magnetici orizzontali dei light bridge si aprono ripetutamente e si riconnettono con quelli verticali dei pori circostanti.

Il team di Toriumi è poi passato a indagare i processi che guidano la formazione dei light bridge e il disallineamento dei loro campi magnetici rispetto a quelli ad essi circostanti. Per far questo hanno utilizzato sofisticate simulazioni numeriche utilizzando il supercomputer Pleiades della NASA. Il modello teorico ha permesso ai ricercatori di ricostruire le proprietà e le strutture osservate nella realtà, indicando che, quando durante la formazione di una macchia due flussi magnetici distinti si avvicinano, del plasma debolmente magnetizzato rimane intrappolato nel mezzo. Continuando l’avvicinamento, questo materiale viene compresso e genera il light bridge. Il suo campo magnetico è disallineato rispetto a quelli che lo circondano, e questa configurazione origina i fenomeni di riconnessione magnetica e quindi esplosioni ed eruzioni di plasma.

«Il lavoro di Toriumi e collaboratori mostra la valenza di un approccio combinato di osservazioni solari multibanda con sofisticate simulazioni magnetoidrodinamiche (MHD), in grado di riprodurre, entro certi limiti, ben identificati dagli autori, le configurazioni osservate. Lo studio della formazione e delle caratteristiche fisiche dei “ponti luminosi” (light bridge)», spiega Mauro Messerotti, fisico solare dell’INAF di Trieste, al quale abbiamo chiesto un commento, «è infatti un aspetto chiave nella comprensione della formazione delle macchie solari e dell’evoluzione della topologia magnetica fino alla riconnessione di campi di polarità opposte, che determina rilascio di energia e fenomeni di attività di vario tipo. Si aggiunge quindi un tassello metodologico importante nello studio dell’attività solare in fotosfera, poiché le simulazioni mirate consentono di render conto della fisica alla base di tali fenomeni».

«D’altra parte, come gli stessi autori mettono in evidenza, vi sono limitazioni interpretative imposte dalla tipologia del modello di simulazione», osserva Messerotti, «come anche dalla mancanza di dati sperimentali relativi ai campi magnetici ad altezze maggiori della fotosfera. Questo ci dà un’idea della complessità della fenomenologia e della fisica relativa e rende conto del fatto che il percorso verso un modello dettagliato dell’attività solare, in grado di consentire previsioni con un buon grado di affidabilità, è ancora molto lungo e comporta avanzamenti nella sofisticazione delle osservazioni solari da Terra e dallo spazio come anche delle tecniche di simulazione, che si auspica saranno disponibili sul medio termine».

Per saperne di più:

Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Galliani

Antiche catastrofiche tempeste solari

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Il Sole illumina la stazione di ricerca NEEM nella Groenlandia settentrionale. Photo by: Raimund Muscheler

Il Sole illumina la stazione di ricerca NEEM nella Groenlandia settentrionale.
Photo by: Raimund Muscheler

Un team di ricercatori formato da scienziati delle Università svedesi di Lund e di Uppsala ha pubblicato su Nature Communications uno studio secondo il quale la terra sarebbe stata colpita più di mille anni fa da due tempeste solari di proporzioni catastrofiche.

Le tempeste solari sono legate alle eruzioni solari, che provocano l’emissione di grandi quantità di particelle. Se colpiscono la Terra tali particelle interagiscono con il campo magnetico terrestre che le guida verso le aree polari, in cui sono alla base di fenomeni spettacolari come le aurore boreali e australi. Negli ultimi anni la Terra è stata interessata da grandi tempeste solari, che nei casi più violenti hanno portano ad interruzioni nella distribuzione di corrente elettrica, come quella dell’ottobre 2003 in Svezia e del marzo 1989 in Canada. L’Ultimo “allarme” tempesta solare lo abbiamo avuto lo scorso 22 ottobre, quando il sole ha prodotto un lunghissimo brillamento, durato oltre tre ore. Allarme che fortunatamente si è concretizzato in nulla di più che qualche spettacolare fenomeno di aurora, visibile a chi si trovasse ai Poli.

Ma le tempeste solari di cui gli scienziati ora hanno ora trovato le tracce nei ghiacci estratti in Groenlandia e Antartide sono stati almeno dieci volte più grandi per intensità rispetto a quello osservato negli ultimi decenni. Dalle evidenze riscontrate i ricercatori giungono alla conclusione che i due eventi studiati sono stati di una potenza maggiore di quanto fino ad oggi si fosse ipotizzato tali fenomeni potessero giungere.

«Se eventi di questa intensità colpissero oggi il nostro pianeta avrebbero effetti devastanti sui nostri sistemi di comunicazione, sui satelliti e gli impianti elettrici» dice Raimund Muscheler del Dipartimento di Geologia dell’Università di Lund. I ricercatori di questo ateneo, insieme a colleghi dell’Università di Uppsala, così come ricercatori di Danimarca e Stati Uniti sono da tempo a “caccia” delle tracce lasciate dalle tempeste solari nei ghiacci della Groenlandia e dell’Antartide.

Alcuni anni fa i ricercatori hanno trovato tracce di un rapido aumento del carbonio radioattivo nei tronchi di alberi in corrispondenza di anelli risalenti al 774/775 e al 993/994 d.C., e le ragioni di tale innalzamento erano ancora non chiare e assai dibattute.

«Nello studio, che viene oggi pubblicato, abbiamo puntato a lavorare in modo sistematico per cercare di scoprire quale fosse la causa di tali eventi ed ora abbiamo l’evidenza dello stesso aumento di carbonio radioattivo nei campioni di ghiaccio corrispondenti agli stessi periodi storici. Grazie a questi nuovi dati è possibile stabilire che la causa di questo misterioso innalzamento del livello di carbonio radioattivo è stato proprio legato a due grandi tempeste solari», aggiunge Muscheler.

Impressione d'artista di una tempesta solare Credits: Meteoweb

Impressione d’artista di una tempesta solare
Credits: Meteoweb

Lo studio, inoltre, fornisce per la prima volta una valutazione affidabile dei flussi di particelle legate a questi eventi, e Muscheler sottolinea l’importanza di questo dato per la futura pianificazione di sistemi elettronici affidabili: «Queste tempeste solari hanno di gran lunga superato ogni fenomeno analogo ad oggi noto e che si è potuto osservare e misurare sulla Terra. I risultati dovrebbero portare a una nuova valutazione dei rischi connessi con le tempeste solari», aggiunge Muscheler.

Su questo nuovo lavoro e sulle tempeste solari in generale abbiamo raccolto un commento di Mauro Messerotti, fisico solare dell’INAF presso l’Osservatorio Astronomico di Trieste.

«Le misure dirette dello spettro delle particelle energetiche solari che hanno dato origine ad impatti sul geospazio, ovvero sui sistemi tecnologici e biologici, sono relativamente recenti, poiché possibili solamente da osservatori spaziali in orbita nelle ultime decine di anni. Vi sono indicatori indiretti – come i radioisotopi di varie specie atomiche – la cui interpretazione è però molto complessa e non sempre univoca. Per questo motivo è molto difficile, ad esempio, stabilire se la tempesta solare di Carrington (1859) sia stata la più intensa in epoche recenti oppure se quella del 1921 l’abbia superata in intensità di impatto, come evidenziato da vari team di ricerca.

Attualmente la progettazione dei veicoli spaziali impiega dei livelli di resistenza alle particelle che sono basati sulle misure attuali, alle quali si applica un fattore moltiplicativo di sicurezza per il valore massimo atteso. In questo ambito lo studio considerato indica che gli eventi a particelle del 774/775 e del 993/994 d.C. presentano dei livelli di gran lunga superiori a qualsiasi evento estremo di space weather sino ad oggi conosciuto.

Assumendo che eventi di questo tipo possano verificarsi al giorno d’oggi, e non vi è nessuna indicazione scientifica che ciò non possa avvenire, l’impatto sarebbe devastante per la funzionalità di tutti i sistemi tecnologici basati a terra e nello spazio, sia per applicazioni civili che militari. Questo apre un nuovo scenario che obbliga a riconsiderare le peggiori condizioni dell’ambiente di radiazioni nel geospazio e degli effetti che tali condizioni possono determinare.

Sarà pertanto opportuno, per quanto si tratti di possibilità remote, riconsiderare le procedure di protezione civile per far fronte agli impatti sulla società, come anche le soglie di sicurezza nella progettazione dei satelliti e nell’effettuazione delle missioni spaziali. Infatti eventi estremi a bassissima probabilità possono, qualora si verifichino, avere effetti devastanti a lungo periodo. Poche nazioni al mondo hanno la consapevolezza di questo aspetto e sono preparate ad affrontare le situazioni conseguenti».

Fonte: Media INAF | Scritto da Francesca Aloisio

Prevedere meglio le eruzioni solari

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Crediti: Solar Dynamics Observatory, NASA

Crediti: Solar Dynamics Observatory, NASA

Un team internazionale di ricerca ha messo a punto un metodo per analizzare in modo estremamente rapido e preciso i campi magnetici presenti nell’atmosfera solare. In un articolo pubblicato su Nature Physics, i ricercatori spiegano il loro metodo e come questo rappresenti un significativo balzo in avanti per il cosiddetto space weather, ovvero lo studio e la predizione di attività solari potenzialmente catastrofiche per la tecnologia terrestre, se non per la vita stessa sul nostro pianeta. Determinate variazioni del campo magnetico solare sono infatti considerate la scintilla che innesca i brillamenti (flares), rapide ma intense esplosioni d’energia che avvengono nella fotosfera della nostra stella.

«Le continue esplosioni che avvengono nel Sole costituiscono la natura potenzialmente distruttiva della stella a noi più vicina», commenta David Jess della Queen University di Belfast, autore principale del nuovo studio. «Le nostre nuove tecniche rappresentano un nuovo modo di sondare i campi magnetici esterni del Sole, fornendo agli scienziati di tutto il mondo con un nuovo approccio per esaminare, e in definitiva comprendere, i precursori responsabili dei fenomeni distruttivi associati allo space waether».

Per la ricerca sono stati utilizzati i dati ottenuti sia dal telescopio spaziale della NASA SDO (Solar DynamicsObservatory) che dal sistema multicamera ROSA (Rapid Oscillations in the Solar Atmosphere) del Dunn Solar Telescope all’osservatorio di Sunspot, in Nuovo Messico. Con questi dati, i ricercatori hanno potuto ricostruire un quadro completo di come i campi magnetici permeino la turbolenta atmosfera solare, diramandosi fino alla sua parte più esterna, la corona.

«Capire il comportamento dei campi magnetici del Sole», aggiunge Damian Christian della California State University, «ci fornisce informazioni cruciali sull’immensa energia in gioco. Siamo molto soddisfatti del potenziale della nostra nuova tecnica per prevedere meglio i brillamenti solari».

Osservazioni di ROSA (quadrato piccolo) sovrapposte a quelle di SDO. Da Jess et al., ApJ, 757, 160 (2012)

Osservazioni di ROSA (quadrato piccolo) sovrapposte a quelle di SDO. Da Jess et al., ApJ, 757, 160 (2012)

I ricercatori sono stati in grado di determinare le intensità del campo magnetico ad un alto grado di precisione grazie allo studio delle onde che si propagano lungo i campi magnetici con velocità di oltre 800.000 chilometri all’ora. La velocità con cui tali onde possono viaggiare è infatti regolata dalle caratteristiche dell’atmosfera solare, compresa la temperatura – che per l’atmosfera esterna si aggira sul milione di gradi – e, appunto, l’intensità del campo magnetico.

Lo studio ha messo in evidenza come la forza dei campi magnetici diminuisca di un fattore 100 mentre si inoltrano dalla superficie verso la più tenue e calda corona. Pur meno forti, i flussi di campo magnetico possiedono comunque ancora un’enorme energia che, se sottoposti a forti tensioni, possono rilasciare violentemente sotto forma di eruzioni solari.

I metodi di analisi sviluppati dal gruppo di ricerca vogliono rendere disponibile un modo molto più veloce per esaminare le modificazioni del campo magnetico in tutto il percorso che sfocia nella produzione di un brillamento. Analisi che, sperabilmente, possano essere utilizzate per segnalare in maniera sempre più precoce e accurata i fenomeni più estremi di space weather.

“Solar Coronal Magnetic Fields Derived Using Seismology Techniques Applied to Omnipresent Sunspot Waves”, David Jess et al., 2015 November 16, Nature Physics

Fonte: Media INAF | Scritto da Stefano Parisini


Superflare solare: tecnicamente possibile

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Una potente eruzione solare catturata dall'obiettivo del Solar Dynamics Observatory NASA.

Una potente eruzione solare catturata dall’obiettivo del Solar Dynamics Observatory NASA

Ritorna lo spettro del superflare solare. Una bomba da un miliardo di megatoni confezionata nientemeno che dalla nostra stella e che potrebbe causare un gigantesco blackout, qui, a Terra. A parlare di sempre meno remota possibilità di un evento di queste proporzioni sono i ricercatori della Warwick University che, studiando il comportamento di una stella binaria conosciuta come KIC 9655129, hanno individuato pericolose somiglianze con il nostro Sole: potrebbe produrre regolarmente superflare.

Al momento si tratta di un processo alle intenzioni, perché l’Armageddon elettromagnetico non si è ancora scatenato, ma il superflare solare potrebbe arrivare davvero. Analizzando i dati raccolti dal telescopio spaziale NASA Kepler, un gruppo di ricerca della Warwick University ha individuato un superflare stellare proveniente dalla stella binaria KIC 9655129, che risponde a un modello fisico molto simile a quello dei brillamenti solari prodotti dalla nostra stella: il Sole.

Si tratta, in questo caso, di brillamenti migliaia di volte più potenti a quelli finora mai registrati sulla superficie della nostra stella, ma spesso riscontrati dagli astrofisici su altre stelle di sistemi lontani. KIC 9655129, che si trova all’interno della Via Lattea, è piuttosto conosciuta per i suoi superflare. Ma c’è una novità: la fisica che li ha prodotti potrebbe essere la stessa che governa l’attività sul nostro Sole.

Se la cosa fosse confermata, bisognerebbe prendere in seria considerazione l’eventualità che il nostro pianeta possa essere spettatore di un brillamento equivalente a una bomba di un miliardo di megatoni. Una tempesta elettromagnetica che certo potrebbe mettere a dura prova la rete elettrica a Terra e causare danni incalcolabili (vedi MediaINAF).

«Se il Sole possa mai produrre brillamenti di queste dimensioni non lo possiamo sapere, se non analizzando i processi fisici che li producono su altre stelle verificando se, qui da noi, ci siano o meno le condizioni perché si ripetano», spiega Chloë Pugh, responsabile della ricerca presso il Warwick Center for Fusion, Space and Astrophysics. «Se il Sole dovesse produrre un superflare sarebbe davvero un disastro per noi. I sistemi di comunicazione GPS potrebbero venire danneggiati e potrebbero verificarsi estesi blackout alla rete elettrica. Fortunatamente le probabilità che questo si verifichi sono estremamente basse».

Talvolta nella parte conclusiva di un evento di brillamento si possono registrare pulsazioni quasi periodiche – quasi periodic pulsations – o QPPs. Nel caso di KIC 9655129 sono state individuate due periodicità, una di 78 minuti e una di 32. «Secondo i nostri modelli si tratta di due periodicità indipendenti. La spiegazione più plausibile è che siano causate da oscillazioni magnetoidrodinamiche (MHD), frequentemente osservate durante questi fenomeni. Un comportamento che accomuna questo tipo di flare con quelli registrati anche sul nostro Sole», spiega Anne-Marie Broomhall, anche lei autrice dello studio e in forze alla Warwick. Un risultato che supporta l’ipotesi che vuole il Sole come potenziale fornace di eventi potenzialmente devastanti.

Fonte: Media INAF | Scritto da Davide Coero Borga

Là dove il Sole luccica

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La macchia solare AR2529 fotografata il 13 aprile 2016, confrontata alle dimensioni della Terra. Crediti: Karzaman Ahmad, Langkawi National Observatory in Malaysia

La macchia solare AR2529 fotografata il 13 aprile 2016, confrontata alle dimensioni della Terra. Crediti: Karzaman Ahmad, Langkawi National Observatory in Malaysia

L’assenza totale di macchie solari che finora caratterizzava il periodo di minima attività magnetica solare nell’attuale ciclo undecennale è stato bruscamente interrotto qualche giorno fa, quando sulla superficie del Sole è comparsa una cosiddetta “regione attiva”, contraddistinta dalla sigla AR2529. Questa primizia solare, ritenuta una macchia poco attiva, presentava la caratteristica di ricordare una forma “a cuore”.

Gli scienziati si sono dovuti ricredere sull’apparente carattere tranquillo di questa macchia solare quando il satellite SDO della NASA, lo scorso 17 aprile, l’ha osservata produrre un brillamento (flare) di media entità (classe M 6.7).

I brillamenti solari sono potenti esplosioni di radiazioni. Si tratta di radiazioni potenzialmente nocive per gli esseri umani, che vengono fortunatamente schermate dall’atmosfera terrestre. Il pericolo maggiore è rappresentato dalle interferenze che i fenomeni più energetici di questo genere possono portare ai satelliti in orbita attorno alla Terra. Anche per questo motivo, i brillamenti sono di particolare interesse per gli scienziati.

Il brillamento solare originato da AR2529 il 17 aprile 2016 ripreso dalla sonda NASA SDO

Video del brillamento solare originato da AR2529 il 17 aprile 2016 ripreso dalla sonda NASA Solar Dynamics Observatory. Si nota anche un anello di plasma scaturire sul lato destro. Crediti: NASA/SDO/Goddard

I flare vengono creati quando l’intreccio dei campi magnetici si riorganizza in maniera improvvisa ed esplosiva, convertendo energia magnetica in luce attraverso un processo chiamato riconnessione magnetica. Almeno questo dice la teoria, difficile da provare dal punto di vista sperimentale perché i segni distintivi di tale processo sono difficili da individuare.

Ora è stato pubblicato un nuovo studio a sostegno della correttezza di questa interpretazione dei brillamenti solari. Si tratta d’una ricerca basata sulle osservazioni che tre telescopi spaziali solari sono riusciti a realizzare durante un brillamento solare del dicembre 2013, ottenendo la visione più completa di un fenomeno elettromagnetico chiamato corrente diffusa (current sheet).

Animazione del brillamento solare del 3 dicembre 2013 visto contemporaneamente dalle sonda americane SDO e STEREO e giapponese HINODE. La corrente diffusa è una struttura lunga e stretta, riconoscibile specialmente nelle viste di sinistra. Crediti: NASA/JAXA/SDO/STEREO/ Hinode (courtesy Zhu, et al.)

Animazione del brillamento solare del 3 dicembre 2013 visto contemporaneamente dalle sonda americane SDO e STEREO e giapponese HINODE. La corrente diffusa è una struttura lunga e stretta, riconoscibile specialmente nelle viste di sinistra. Crediti: NASA/JAXA/SDO/STEREO/ Hinode (courtesy Zhu, et al.)

A differenza di altri eventi “climatici” spaziali, come ad esempio le espulsioni di massa coronale, i brillamenti solari viaggiano alla velocità della luce. Ciò significa che non abbiamo alcun segnale anticipatore del loro arrivo. Sicché gli scienziati vogliono arrivare a definire i processi che portano alla creazione dei brillamenti solari: la speranza è quella di riuscire, prima o poi, a prevederli con qualche giorno di anticipo.

«L’esistenza di una corrente diffusa è cruciale in tutti i nostri modelli che predicono l’evoluzione dei brillamenti solari», dice James McAteer, astrofisico presso la New Mexico State University e tra gli autori del nuovo studio. «Così queste osservazioni ci rendono molto più sicuri e rilassati».

Modello di “current sheet”. Crediti: ESA

Riconnessione magnetica. Crediti: ESA

Una corrente diffusa è un flusso molto veloce e molto piatto di materiale elettricamente carico, definito in parte dallo spessore estremamente ridotto rispetto alla estensione. Le correnti diffuse si formano quando due campi magnetici allineati in modo opposto entrano in stretto contatto, creando una pressione magnetica molto alta. La corrente elettrica che scorre attraverso questa zona ad alta pressione è fortemente compressa, come fosse “laminata”. Questa configurazione di campi magnetici è instabile, una condizione che può facilmente portare alla riconnessione magnetica.

« La riconnessione magnetica accade nell’interfaccia tra campi magnetici allineati in modo opposto», spiega Chunming Zhu, scienziato spaziale alla New Mexico State University e autore principale dello studio. «I campi magnetici si spezzano e si riconnettono, dando origine a un brillamento solare».

Non è naturalmente la prima volta gli scienziati osservano una corrente diffusa durante un brillamento solare, ma questo studio, secondo gli autori, è unico, in quanto diverse proprietà della corrente diffusa – quali velocità, temperatura, densità e dimensioni – sono state osservate contemporaneamente da più angoli di vista, oppure derivate da più di metodo di analisi.

Un altro studio appena pubblicato su Scientific Reports, una rivista scientifica affiliata a Nature, propone un ulteriore record nel campo dei brillamenti solari. Gli scienziati del New Jersey Institute of Technology (NJIT) hanno catturato al Big Bear Solar Observatory (BBSO) immagini senza precedenti di un brillamento solare, esploso il 22 giugno 2015. Secondo gli scienziati, si tratta delle immagini con maggiore risoluzione per questo genere di osservazioni.

Ripresa del telescopio NST (a dx) confrontata con quella del satellite SDO (a sx). Crediti: NJTI

Ripresa del telescopio NST (a dx) confrontata con quella del satellite SDO (a sx). Crediti: NJTI

Nella straordinaria galleria ottenuta dal telescopio New Solar Telescope (NST) di 1.6 metri vi sono cose che noi umani non possiamo neanche immaginare: nastri di bagliori luminosi che attraversano una macchia solare, seguiti da una pioggia di plasma coronale che si condensa nella fase di raffreddamento poco dopo il brillamento, “annaffiando” la superficie visibile del Sole di esplosive gocce luminose.

Le nuove immagini permettono di comprendere meglio uno degli enigmi centrali della fisica solare, ovvero come l’energia venga trasferito da una regione del Sole all’altra durante e dopo un brillamento solare. «Possiamo ora osservare in dettaglio molto fine come l’energia sia trasportata nei brillamenti solari», commenta Ju Jing, professoressa al dipartimento di fisica del NJIT e autrice principale dello studio. «In questo caso dalla corona, dove è stato conservato, alla bassa cromosfera, decine di migliaia di miglia più in basso, dove la maggior parte dell’energia è stata infine convertita in calore e irradiata via».

Ju Jing. Crediti: NJTI

Ju Jing. Crediti: NJTI

Ju sottolinea che, mentre i fasci di elettroni sono tradizionalmente visti come l’agente principale per il trasporto di energia nei brillamenti, le recenti osservazioni forniscono nuove informazioni sulla scala spaziale a cui avviene il trasporto di energia.

Anche in questo caso, i ricercatori sperano che i loro risultati possano portare a una migliore comprensione dell’impatto che brillamenti possono avere sulle attività Terrestri.

«Le nostre misure colmano il divario tra modelli e osservazioni, aprendo anche interessanti quesiti per ricerche future», commenta in conclusione Ju. «Saremo in grado di misurare, ad esempio, con i telescopi terrestri di grandi dimensioni queste caratteristiche sulla superficie del Sole fino alla loro scala spaziale fondamentale?».

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Fonte: Media INAF | Scritto da Stefano Parisini

Un telescopio solare al Polo Sud

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Fase del montaggio del canale nel Potassio (K) sulla montatura del telescopio. Crediti: Francesco Berrilli

Per un fisico solare, uno dei luoghi ideali per osservare la nostra stella è senza dubbio il Polo Sud. Questo è dovuto da un lato alle condizioni di stabilità atmosferica e pulizia del cielo eccezionali, grazie anche alle quote che raggiungono i 3.000 metri sul livello del mare, e dall’altro alle osservazioni virtualmente ininterrotte dell’estate australe, quando il Sole arriva ad essere visibile per tutto l’arco della giornata. Da queste considerazioni nasce il progetto per il South Pole Solar Observatory, un telescopio dedicato all’osservazione della nostra stella e posizionato al Polo Sud geografico.

A partire dai primi giorni di gennaio scorso Francesco Berrilli e Stefano Scardigli, rispettivamente professore e ricercatore postdoc dell’Università di Roma Tor Vergata, si trovano presso la Stazione Polare Amundsen-Scott, in Antartide, per installare e rendere operativo il telescopio solare MOTH II. Questo telescopio verrà utilizzato in particolare per la ricerca astrofisica nel campo delle onde di gravità nell’atmosfera solare e della meteorologia spaziale. Il progetto, finanziato dalla National Science Foundation e coordinato da Stuart Jefferies, professore della Georgia State University, ha un piccolo supporto del PRIN-MIUR 2012. Il team è composto da ricercatori dell’Università delle Hawaii, Georgia State University, Università di Roma Tor Vergata, JPL e Agenzia Spaziale Europea.

La scelta del sito di osservazione è ricaduta sul Polo Sud per la lunga serie di vantaggi già elencati (altri li avevamo evidenziati poche settimane fa), ma tutte queste qualità si pagano col fatto che le messe a punto del telescopio e degli strumenti sul piano focale si effettuano all’esterno della stanza di controllo, che si trova sotto il ghiaccio per non generare turbolenza nell’atmosfera, a temperature percepite di -35/-40°C.

Telescopio montato con la struttura “Hammerschlag” per la soppressione del vento. Crediti: Francesco Berrilli

Il telescopio è composto da due canali operanti in righe del Sodio e del Potassio, e ha un cuore tutto italiano, essendo basato sui filtri magneto-ottici sviluppati negli anni ‘90 per applicazioni solari da un team del Dipartimento di Fisica delle Sapienza, allora coordinato da Alessandro Cacciani. I due canali permettono l’osservazione simultanea dei campi di velocità del plasma solare e del campo magnetico a due altezze della regione fotosferica/cromosferica dell’atmosfera della stella. Queste immagini, acquisite ad elevatissima cadenza e virtualmente senza interruzioni temporali, consentono l’analisi della dinamica del plasma e del campo magnetico della stella con risoluzioni temporali senza precedenti, aprendo la strada a nuovi algoritmi di predizione degli eventi solari, come ad esempio i brillamenti, e a nuovi strumenti di indagine in campo astrofisico con ricadute importanti per la nostra società tecnologica nel campo della meteorologia spaziale. Il progetto, che ha la durata di 3 anni, proseguirà con le campagne antartiche 2017-18 e 2018-19.

Stanza di controllo sotto il ghiaccio del telescopio solare MOTH II. Crediti: Francesco Berrilli

«Recarsi ai confini del mondo, in un deserto di ghiaccio, può sembrare strano per un ricercatore che voglia studiare il Sole. Eppure è proprio durante l’estate australe al polo sud geografico che troviamo condizioni osservative ottimali per lo studio della nostra stella», racconta ai microfoni di Media INAF Francesco Berrilli. «ll South Pole Solar Observatory si trova a 3.000 metri di quota, ha l’atmosfera più secca della Terra ed un seeing eccezionale, e inoltre consente di osservare la stella per mesi interi. L’osservatorio, con il suo telescopio a doppio canale basato su filtri magneto-ottici permette di acquisire immagini dei moti verticali del plasma fotosferico, con una sensibilità di 7 m/s in 5 secondi, e del campo magnetico fotosferico a più quote dell’atmosfera solare. Le lunghe serie temporali consentono poi di testare, con tecniche di eliosismologia locale ed analisi di segnale, algoritmi innovativi per lo studio della dinamica del plasma della stella e per la previsione dei brillamenti solari. Tali algoritmi sono ormai ritenuti di importanza strategica per gli studi connessi alla meteorologia spaziale e alla protezione delle infrastrutture tecnologiche».

«Da un punto di vista personale si è colpiti dal trovarsi in un punto geografico così importante», prosegue Berrilli, «dove tutte le longitudini e tutti i tempi finiscono per convergere, dove “esce” l’asse intorno a cui ruota l’intero mondo. Chi studia il cielo ha la fortuna e il privilegio di lavorare in luoghi remoti e magnifici, sui vulcani delle Hawaii, in Cile o alle Canarie. Ma qui siamo letteralmente su un altro pianeta, protetti nella South Pole Station ma in un ambiente ostile e a migliaia di chilometri dai più vicini ospedali e città. Siamo su un esopianeta ghiacciato ad osservare e studiare una stella che ricorda molto, molto il nostro Sole».

«Si tratta di un’esperienza incredibile, dal punto di vista scientifico ed umano», dice a Media INAF Stefano Scardigli. «Siamo all’interno di una macchina scientifica e tecnologica che ci permette di lavorare in condizioni ottimali in un ambiente totalmente ostile. Mi sento molto orgoglioso del privilegio che mi è concesso e di rappresentare l’Italia in questa missione. Dopo il primo stupore, dopo aver imparato ad utilizzare al meglio le attrezzature per le condizioni climatiche estreme a cui si è sottoposti, fatte proprie le regole, i rituali, i ritmi necessari a mantenere in sicurezza strutture e personale, ci si concentra sul lavoro. Ma basta un attimo e la mente fugge alle memorie di Amundsen, Scott, Shackleton… mentre lo sguardo si perde nella distanza infinita tra ghiaccio e cielo. Così si arriva a percepire la magia e il mistero dell’avventura umana».

Galassie “all you can eat” per buchi neri voraci

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Rappresentazione artistica d’un evento di distruzione mareale nella galassia F01004-2237. Il rilascio di energia gravitazionale prodotto dai detriti della stella che precipitano nel buco nero genera un intenso bagliore. Crediti: Mark Garlick

Divorano tutto, luce e materia, questo già lo sapevamo. Ma quanto divorano? O meglio: quanti pasti si concedono? Parliamo di buchi neri, naturalmente. Buchi neri supermassicci. Quelli che albergano nel cuore delle galassie, Via Lattea compresa. E che di tanto in tanto trangugiano una malcapitata stellina di passaggio. Ed è proprio per calcolare a quanto ammonta quel di tanto in tanto che un team di astronomi dell’università di Sheffield, nel Regno Unito, ha seguito per dieci anni, a partire dal 2005, un campione di 15 galassie ultraluminose nell’infrarosso. Tutte galassie nelle quali è in corso un episodio di “collisione cosmica” con galassie vicine. I risultati, pubblicati sull’ultimo numero di Nature Astronomy, si discostano non poco dalle stime esistenti: se le precedenti osservazioni suggerivano un ‘pasto stellare’ – più correttamente, un tidal disruption event (Tde), o evento di distruzione mareale – una volta ogni 10-100mila anni per ciascuna galassia, dunque fenomeni estremamente rari, i dati raccolti dagli astronomi inglesi grazie al William Herschel Telescope, alle Canarie, inducono a pensare che in realtà il fenomeno sia almeno 100 volte più frequente. Soprattutto durante gli episodi di merging, ovvero quando due galassie si scontrano.

Come hanno fatto a calcolarlo? Per prima cosa va detto che la similitudine del ‘pasto’, sebbene adottata dagli stessi ricercatori (che parlano, appunto, di ‘cannibalismo’), va presa per quel che è: in realtà, non c’è una stella più o meno imprudente o un buco nero più o meno affamato, ma è tutto un gioco d’interazioni gravitazionali e di scambi energetici. Fatta questa premessa, la nuova stima – ottenuta, va detto, da un campione alquanto ridotto – deriva dall’osservazione di emissioni anomale dalle galassie sotto indagine. Una luce che può essere interpretata come l’agonia della stella smembrata, l’urlo elettromagnetico della materia che avvampa: strappata dalla forza gravitazionale del buco nero, rilascia enormi quantità d’energia. Sono i cosiddetti flares, o bagliori, e finché durano appaiono luminosi come miliardi di stelle messe assieme. Ed è proprio uno di questi flare – avvistato nel 2010 in una delle galassie del campione, F01004-2237, a 1.7 miliardi d’anni luce da noi – ad aver costretto gli astronomi a rivedere le precedenti stime.

In particolare, gli scienziati hanno avuto conferma d’un aspetto in apparenza facile da intuire, almeno per noi profani, sebbene gli autori dello studio si dichiarino stupiti: «I nostri risultati sorprendenti mostrano che la frequenza degli eventi di tidal disruption aumenta drammaticamente quando le galassie si scontrano», spiega James Mullaney, uno degli autori dello studio. «Ciò è probabilmente dovuto al fatto che le collisioni fanno sì che, mentre due galassie si fondono l’una nell’altra, molte stelle inizino a formarsi nei pressi dei due buchi neri supermassicci centrali».

Un incremento d’attività che in un lontano futuro potrebbe riguardare anche la nostra galassia. «In base a quanto abbiamo osservato per F01004-2237», dice lo scienziato alla guida dello studio, Clive Tadhunter, «ci attendiamo che eventi di tidal disruption diventeranno comuni anche nella Via Lattea, quando nel giro di circa 5 miliardi di anni finirà per fondersi con la galassia di Andromeda. Guardando verso il centro della Via Lattea al momento della fusione, saremo allora in grado d’osservare un flare più o meno ogni 10 – 100 anni. Bagliori che risulteranno visibili a occhio nudo, superando in luminosità qualunque altra stella o pianeta nel cielo notturno».

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La prima volta di Suvi

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Questa straordinaria immagine del Sole è stata catturata lo scorso 29 gennaio dai sei canali, a differente lunghezza d’onda, dello strumento SUVI a bordo di GOES-16. In evidenza una grande buco coronale nell’emisfero meridionale della stella. Crediti: NOAA

Battesimo scientifico per Suvi, il Solar Ultraviolet Imager montato a bordo di Goes-16, il satellite lanciato nel novembre 2016 da Nasa.

Il Sole si sta avvicinando al suo periodo di minima attività, seguendo il ciclo della stella che si conclude ogni 11 anni. Durante questo periodo le potenti eruzioni lasciano il posto a spettacolari voragini nella corona solare. Con il termine buchi coronali ci si riferisce a regioni in cui la corona della nostra stella appare più scura per via del plasma che fuoriesce ad alta velocità verso lo spazio interplanetario, mettendo in evidenza un’area più fredda e a minore densità rispetto all’ambiente circostante.

Suvi è un telescopio spaziale per lo studio del Sole nella lunghezza dell’estremo ultravioletto. Toccherà a lui catturare immagini della nostra stella a maggiore definizione e un maggiore angolo di osservazione rispetto ai precedenti satelliti geostazionari Noaa. E le prime immagini non fanno che confermare le aspettative sul progetto Nasa.

La corona solare è composta da plasma ad altissima temperatura. Questo gas incandescente e altamente ionizzato interagisce con il potente campo magnetico del Sole, dando vita a movimenti convettivi di materiale che può raggiungere temperature di milioni di gradi. Fuori dal flusso convettivo della corona, si trovano regioni fredde e scure che possono esplodere diventando una fonte primaria di meteorologia spaziale. I buchi coronali, con le loro emissioni di plasma ad altissima velocità possono infatti rappresentare un concreto pericolo per i satelliti in orbita attorno alla Terra.

È dunque fondamentale studiare questo genere di fenomeni: a seconda della grandezza di un’eruzione solare, possiamo aspettarci o meno un fenomeno di disturbo del campo magnetico terrestre e prevenire l’eventuale impatto a reti elettriche e comunicazioni satellitari.

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